Marò, quello che nessuno dice

Ricomporre i tasselli del mosaico, dipanare la matassa, far germogliare la verità: questo dovrebbero fare i giornalisti. E quando non sono degli Sherlock Holmes dell’indagine giornalistica, almeno dovrebbero essere degli infaticabili Andrej Stachanov. Ma spesso, purtroppo, il giornalismo pigro e superficiale prevale.

Emblematico è il caso dei marò. Questi due militari sono in balia di giudici, giornalisti e politici da dicembre del 2012 e probabilmente la lentezza del caso è dovuta proprio al suo alto profilo mediatico.
Giuridicamente e diplomaticamente non è detto che il problema sia poi così complicato: il punto, piuttosto, è che è (e soprattutto era) in ballo l’immagine del governo indiano e del governo italiano: Sonia Gandhi, italo-indiana leader del Partito del Congresso Indiano (una sorta di partito social-nazionalista), è da tempo al centro di certe teorie del complotto (in India) che l’accusano di favorire gli interessi degli italiani.

Ma tutti questi presunti favoritismi non si sono visti, anzi: la Gandhi fa di tutto per contraddire queste teorie evitando accuratamente di farsi intervistare dai media italiani, e tanto meno di mostrare, mediante il suo partito, posizioni troppo morbide nei confronti dell’Italia.
Quindi, per esorcizzare le accuse, il governo indiano si è dovuto mostrare forte. E anche adesso che non è più il Partito del Congresso a governare – ma un partito di destra nazionalista – poco cambia.

Quanto al governo italiano, ai tempi di Mario Monti a fare la voce forte era l’allora ministro degli esteri Giulio Terzi di Sant’Agata, tuttora fervente difensore dei due militari. Il Professore, dalla sua, già presagiva la caduta dei numeri degli scambi commerciali tra i due Paesi e sperava che la cosa si potesse concludere in modo discreto, tanto che tra i due ci fu un diverbio, con le dimissioni di Terzi. Per un governo tecnico orientato all’austerity, questo incidente internazionale non poteva essere che una rogna.

Enrico Letta, poi, aveva ricominciato tutto da capo, ed era stato silurato prima di poter fare qualcosa di nuovo; mentre Matteo Renzi (che pure ha ripreso le trattative da capo) ha avuto tempo in più e ha finalmente traghettato il caso verso la giurisdizione internazionale, da sempre auspicata più o meno da tutti. Non si sa poi quanto il merito sia suo o semplicemente del tempo che passa, e della razionalità che, come l’acqua, finisce sempre per erodere la pietra dell’emotività. Ma ora si è arrivati al punto: a entrambi i marò è stato garantito il diritto di stare in Italia fino alla decisione della Corte Internazionale.

I giornalisti, però, da tempo non si appassionano più di questioni relative alla giurisdizione: preferiscono cercare di dimostrare l’innocenza stessa dei due fucilieri di marina.

Tra le basi sia del giornalismo che della scienza, c’è il principio che le idee personali del giornalista/scienziato non debbano influire sulla ricerca della verità. Tuttavia per entrambe le categorie è difficile mantenere questa distanza. In particolare, molti media hanno difeso a spada tratta i marò, e sembrerebbe lo abbiano fatto più per un’idea preconcetta che in presenza di fatti conclamati.

Sia chiaro, non è affatto sicuro che i marò siano colpevoli. Ma nemmeno che siano innocenti. Per questo ci sono i tribunali. Eppure una parte dei media ha pubblicizzato un intero sistema di teorie, per lo più già smentite, per dimostrare l’innocenza dei fucilieri. Le ipotesi di innocenza sono talmente tante da travolgere il lettore, che finisce per convincersene. 

L’ultimo più eclatante esempio di teorie affrettate, è quello secondo cui i proiettili rinvenuti nei corpi dei pescatori sarebbero di un calibro completamente diverso da quelli in dotazione ai marò. «Sasikala ha misurato un’ogiva lunga 31 millimetri, con una circonferenza di 20 millimetri alla base e di 24 nella parte più larga», afferma l’articolo del Quotidiano che ha scatenato il putiferio. Una circonferenza di 24 mm alla base significa un calibro di 7,64 mm, che porterebbe a pensare a tutto un altro tipo di proiettile. Ma la citazione originale, in inglese, affermava: «It measured 3.1 cm in lenght and 2 cm in circumference at a point 2.4 cm above the base».

Si può anche sbagliare una traduzione, ma è grave sbagliarla in quel modo. In italiano (e in millimetri) vuol dire: «Misurava 31 mm in lunghezza e 20 mm in circonferenza, misurata a partire da un punto a 24 mm sopra la base».

Quindi la circonferenza è di 20 mm (non 24) e il calibro (circonferenza/pi greco) misura in realtà 6,36 mm, ed è decisamente più vicino al calibro dei proiettili che sparano le armi di ordinanza dei marò (5,56 mm Nato). E la differenza può essere spiegata dalla deformazione del proiettile.

Marò, ora l’India ammette: “I proiettili non erano loro”. E spunta la truffa dei testimoni fotocopia: così titolava Il Giornale, prendendosi la licenza di dire che l’India lo «ammette», sebbene in realtà i documenti presentati dall’India fossero, evidentemente, tesi a dimostrare l’esatto contrario.

L’altezza di 31 mm – rispetto ai 25 mm dei proiettili Nato in dotazione dei marò – era sicuramente sospetta. Epoch Times ha quindi avuto un’idea tutt’altro che innovativa: chiedere il parere degli esperti.

E, seppur con mesi di ritardo a causa delle iniziali difficoltà nel trovare un esperto balistico disposto a ‘esporsi’ su un tema così discusso, ha ricevuto le risposte necessarie. E queste risposte possono essere riassunte con: ‘Sì, l’altezza del proiettile è molto strana, ma non è escluso che si tratti di una deformazione’. Gli indiani dicono appunto che il proiettile era deformato, ma che il loro esperto balistico lo ha riconosciuto, dopo i dovuti esami, come un calibro 5,56 Nato appartenente a un marò. E lo stesso per il secondo proiettile, estratto dal cadavere del secondo pescatore ucciso.

Sono quindi due i marò incriminati dall’esame balistico, e sarebbero Renato Voglino e Massimo Andronico. Erano due dei sei marò presenti sulla nave italiana e che ora sono in Italia, dove sono sempre rimasti, lontano dai riflettori. Di loro ha parlato di sfuggita solo Repubblica. Eppure anche questa informazione è presente – anche se in effetti va scovata – nei documenti indiani, gli stessi da cui si ricavano le dimensioni del proiettile.

Un altro caso di informazione frettolosa è la teoria incentrata sulle dichiarazioni di Freddy Bosco, armatore della barca da pesca finita (forse, anche questo è da dimostrare) sotto il fuoco dei nostri marò. Bosco, la sera dell’incidente, ancora sotto shock, dichiarava che il tutto era avvenuto alle 21 e 30 ora indiana. Ma in realtà lo scontro a fuoco pare sia avvenuto alle 16 e 30.

Assolutamente legittimo quindi che siano sorti dubbi e che i giornalisti si siano messi a indagare. Plausibilissimo anche che non abbiano pensato tutti di controllare l’orario di pubblicazione dei primi articoli sui media indiani. Già alle 19 e 35, per esempio, il Times of India riportava la notizia, e questo è comprovato dalla copia cache della pagina web. Legittimo non pensarci. Un po’ meno continuare a diffondere questa teoria una volta smentita. 

Risulta molto più logico concludere che il povero Freddy Bosco, che ha visto i suoi amici cadere morti all’improvviso, e sentito il suono dei proiettili bucare la sua barca mentre quasi tutti schiacciavano un pisolino in una tranquilla giornata di pesca, abbia sbagliato in buona fede. E non è invece tanto logico pensare che proprio il testimone sotto shock abbia fornito l’informazione corretta, mentre i media, il governo, e gli esperti balistici indiani tutti insieme abbiano mentito.

Il problema – ripetiamo – non è che queste teorie esistano. Le teorie, anche elaborate, possono aiutare a far germogliare la verità, e dare al governo dei modi per difendere i propri soldati. Ma se si continua a sostenerle anche quando sono ormai obiettivamente insostenibili, non si fa altro che il gioco contrario.
I politici tendono a seguire le analisi dei media, e, dall’idea che ci siamo fatti, non ne sanno granché di più dei giornalisti, su questo caso. Quindi – come dei comuni lettori – finiscono per credere ai giornali, quando spiegano le loro teorie.

Se politica e verità – è noto – tendono a essere due mondi a volte ‘in conflitto’, e ai politici è richiesto dal proprio ruolo di difendere i propri militari a priori, i giornalisti, con la verità, dovrebbero avere un rapporto molto più stretto. La verità supera le ideologie e la propaganda, e i giornalisti dovrebbero essere quindi strumenti di verità, o almeno provarci.

Per approfondire:


Le opinioni espresse in quest’articolo sono le opinioni dell’autore e non riflettono necessariamente il punto di vista di Epoch Times.

 
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