La mossa di Putin in Siria e i rischi del gioco duro

Il presidente russo Vladimir Putin sta cambiando faccia al Medioriente, creando la nuova situazione direttamente sul campo. Le recenti operazioni militari e gli attacchi aerei contro gli obiettivi siriani segnano il ritorno della Russia come importante attore strategico internazionale: non accadeva dalla Guerra dello Yom Kippur nel 1973, che aveva visto affrontarsi diverse nazioni arabe e Israele.

Il Cremlino trattiene a fatica la sua soddisfazione per il rapido intervento in Siria. Tatticamente, ha colto gli Stati Uniti totalmente di sorpresa – persino ora, infatti, Washington sostiene di non sapere cosa abbia in mente la Russia – e Putin deve sentirsi piuttosto confuso, nel guardare Washington che fatica a trovare una risposta, mentre emana minacce e avvertimenti vuoti, non seguiti da azioni concrete.

Putin ha persino rubato la scena all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite: chi si ricorda più che il presidente cinese Xi Jinping, il premier indiano Narenda Modi e gli inviati di altri Paesi si sono tutti riuniti per celebrare il 70° anniversario della fondazione dell’Onu?

Putin ha ‘aggredito’ il presidente Barack Obama, costringendolo a un meeting bilaterale su Siria e Ucraina, facendosi quindi beffa del tentativo degli Usa di isolarlo diplomaticamente (tentativo durato 18 mesi). Contrariamente alle aspettative, Putin è scampato alle critiche dei media sulle sue azioni in Ucraina. Invece gli osservatori occidentali ne parlano come l’uomo che ha in mano le chiavi della stabilità del Medio Oriente e della pace in Ucraina, nonostante molti continuino a demonizzarlo. In breve la Russia è importante – e questo conta molto per Putin.

È anche importante che la Russia stia prendendo l’iniziativa il Siria. L’obiettivo immediato è di dar forza al regime assediato di Assad, che Putin vede come un bastione contro le forze estremiste – e ha ragione nel pensare che a oggi l’unica alternativa possibile ad Assad in Siria siano le diverse varietà di estremisti. A tal fine Putin ha forgiato una coalizione con Assad, Iran, Iraq e Hezbollah libanese, e ha lanciato i primi attacchi aerei contro i ribelli anti-Assad (l’opposizione che è appoggiata dagli Usa), che Putin ritiene invece dei terroristi e quindi dei partner inaccettabili in una qualsiasi transizione politica. La Russia ha anche colpito l’Isis in Iraq e in Siria, sebbene con minore intensità.

La Russia probabilmente aumenterà la frequenza degli attacchi contro l’Isis nei prossimi giorni, dal momento che il gruppo terroristico pone una grave minaccia: più di 2 mila cittadini russi si sono arruolati nell’Isis in Siria; i sostenitori dell’Isis si trovano anche in Russia e nelle vicinanze di Mosca; gruppi terroristici nel Caucaso del Nord si sono alleati all’Isis, e l’Isis ha quindi dichiarato la regione come una ‘awilayat’, ovvero una provincia dello Stato Islamico; e l’Isis ha esteso la sua mano nera agli Stati dell’Asia Centrale di stampo musulmano, assieme alla periferia meridionale russa.

Le azioni della Russia non riguardano semplicemente Assad e l’Isis; riguardano soprattutto il rimodellamento del panorama geopolitico nel Medio Oriente. Il rafforzamento della presenza militare ha ovviamente lo scopo di assicurare uno sbocco russo sul Mar Mediterraneo, includendo il porto di Tartus e la nuova base aerea di Latakia. Questo assicura alla Russia un posto in qualsiasi tavolo di negoziati futuro riguardante il Medio Oriente.

Allo stesso tempo, la presenza militare attiva della Russia di per sé provoca un indebolimento della posizione americana. Putin ha portato a casa il punto, chiedendo alle Nazioni Unite di creare «una coalizione internazionale ‘genuina’ ed estesa, contro il terrorismo», mentre ha criticato le azioni statunitensi negli anni recenti, che avrebbero – sostiene il presidente russo – solo alimentato l’ascesa dei gruppi estremisti, tra cui l’Isis.

Inoltre, il fatto che Putin abbia fortemente difeso Bashar al-Assad, il suo alleato, non sarà dimenticato da quei leader mediorientali che hanno dubbi su quanto l’America si impegni per la loro sicurezza, dopo diversi avvenimenti quali la caduta del leader autoritario egiziano Hosni Mubarak (sostenuta dagli Usa), la diminuzione degli sforzi degli Usa in Iraq e, finora, l’inefficace campagna contro l’Isis. Infine, i partner principali degli Usa – Egitto, Israele, Arabia Saudita e Turchia – dovranno ora adattarsi alle nuove realtà che la Russia sta creando.

Un’intensificarsi dell’attività diplomatica nelle recenti settimane indica che Mosca sta lavorando duro per raggiungere accordi con tutti loro, a spese dell’America. Una dimostrazione di forza, è di aiuto in una regione che rispetta la forza. Ma la coraggiosa mossa di Putin, per quanto soddisfi il Cremlino, presenta forti rischi.

Il sostegno interno al Paese non è garantito, nonostante la grande capacità del Cremlino di condizionare l’opinione pubblica. I Russi potrebbero apprezzare che il loro Paese agisca da potenza sul palcoscenico globale. Ma un recente sondaggio indica che due terzi dei russi siano contrari all’invio di truppe di terra a sostegno di Assad. Il Cremino ha escluso tale opzione per il momento, ma il dato suggerisce che ci siano dei limiti a quanto la nazione possa spingersi nel realizzare i propri obiettivi, specialmente se la resistenze si dimostrano più forti del previsto.

E nemmeno il successo militare è garantito: questa è la prima volta, dopo l’umiliante disavventura afghana negli anni 80, che le forze russe si ritrovano a condurre operazioni di combattimento a lungo termine al di là dei confini dell’ex territorio sovietico. Questa operazione avrà la sua dose di effetti collaterali – come ogni operazione militare a lungo termine – che porterà a dibattiti interni sulla sua opportunità o meno, che sorgeranno in un momento in cui l’esercito russo sarà in forte tensione.

Mentre l’economia – se andrà bene – sarà stagnante, l’esercito dovrà riuscire a gestire un conflitto a lungo termine in Ucraina, a sostenere gli sforzi strategici contro la Nato, a rafforzare la sua presenza nell’Artico e a prepararsi per un possibile nuovo fronte anti-terroristi in Asia Centrale. Tutto questo mentre la sicurezza dell’Afghanistan cala come testimonia la temporanea conquista di Kunduz, un importante centro provinciale, da parte dei Talebani.

Ma l’aspetto più più pericoloso è che Putin non abbia il controllo del gioco, nonostante la spavalderia del Cremlino: ha inserito improvvisamente la Russia in un conflitto dinamico senza nessuna strada precisa verso il successo. I rischi del diffondersi di una vasta guerra o di un’impantanamento, non sono affatto trascurabili.

Se l’offensiva russa dovesse vacillare, Israele, l’Arabia Saudita, la Turchia e gli Stati Uniti approfitterebbero dell’apertura e cercherebbero di limitare e minare la Russia. Forse aumentando gli aiuti ai ribelli anti-Assad, o intraprendendo azioni militari più coraggiose, come l’applicazione di no-fly zone limitate e l’instauramento di corridoi umanitari e rifugi all’interno della Siria. In più, quando grandi forze militari operano in stretta vicinanza, gli incidenti sono inevitabili, e se non gestiti bene possono portare a un conflitto aperto. In sintesi, le incertezze abbondano.

Certo è che l’obiettivo di Putin è quello di rifare il Medio Oriente. Ma non sa come, e ha messo in moto delle dinamiche di cui non ha il controllo. Altri poteri e forze avranno la loro parte, specialmente gli Stati Uniti. E Putin dovrebbe sapere che gli Usa hanno una capacità maggiore di condizionare i nuovi sviluppi rispetto a quella russa.

Putin sta scommettendo sul fatto che l’attuale amministrazione Usa manchi dell’abilità di immaginare una contro-strategia efficace e della volontà di agire con decisione. Le prossime settimane ci diranno se ha ragione. Ma non importa cosa gli Stati Uniti faranno o non faranno: la loro risposta sarà almeno altrettanto influente quanto l’azione russa nel rimodellare il Medio Oriente.

 

Thomas Graham, senior fellow presso il Jackson Institute for Global Affair, è stato direttore senior per la sezione Russia del personale del Consiglio di Sicurezza Nazionale degli Usa nel 2007. Copyright © 2015 YaleGlobal and the MacMillan Center. Questo articolo è stato pubblicato originariamente su Yaleglobal.yale.edu.

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