Nuova guerra fredda nel Pacifico

Fin dalla Seconda guerra mondiale, in cui l’Australia ha combattuto da alleata con le truppe americane, questo Paese ha giocato un ruolo cruciale come partner strategico degli Stati Uniti nella regione dell’Asia-Pacifico, prima con le guerre di Corea e Vietnam e successivamente con quelle in Afghanistan e Iraq.

Quando si tratta di avere a che fare con il ricco, determinato e sempre più aggressivo regime cinese, quello che le relazioni fra Canberra e Washington devono affrontare è più profondo delle semplici sfide militari lanciate dall’esercito del Dragone. Nonostante le decine di anni di serrate relazioni fra i due giganti anglofoni, infatti, l’influenza dell’economia e il soft power cinese combinati al cambio di attitudini politiche in Australia, sembrano aver fornito a Pechino degli strumenti di influenza sul Paese.

Sia Stati Uniti che Cina hanno intensificato i propri forzi nella regione dell’Asia-Pacifico: la Cina ha costruito navi e basi per il conteso Mar Cinese Meridionale, gli Stati Uniti hanno risposto nel 2013 con un cambio di strategia, che ha portato l’Asia al centro dello scacchiere. Le pressioni scaturite da questi episodi sono giunte in Australia, che ora deve prendere una posizione.

Un terzo del commercio estero australiano è con la Cina; inoltre è stato segnalato che i politici australiani, che non hanno ostacoli giuridici riguardo al permesso di accettare donazioni, hanno ricevuto denaro da organizzazioni e individui cinesi connessi con i capi del regime.

I media australiani riferiscono di diversi think tank, giornali e scuole che danno un’immagine pubblica rosea della Cina. In una recente ricerca del Centro studi degli Stati Uniti, è risultato che gli australiani considerano con ugual diffidenza le politiche di Stati Uniti e Cina nel continente asiatico.

Un recente articolo pubblicato dall’Australian Business Review ha contestato sia la recente espansione del budget militare di Canberra (il tredicesimo più grande al mondo con circa 22 miliardi di dollari), sia l’aumento delle azioni di cooperazione con i Paesi asiatici che condividono i disturbi dovuti alle rivendicazioni territoriali della Cina, il tutto in un periodo in cui nel Paese continuano a sussistere forti preoccupazioni sulle questioni economiche e interne: «C’è una grane distanza, e per giunta crescente, fra le politiche del governo e l’opinione pubblica».

I risultati della ricerca del Centro studi degli Stati Uniti denotano che gli intervistati convergono significativamente sul fatto che una forte relazione con la Cina sia preferibile rispetto a una con gli Stati Uniti.  
L’Australian Business Review interpreta in maniera differente la situazione sostenendo che «la popolazione rimane largamente ambivalente e preferisce evitare una scelta fra alleati e benefattori economici».

DA PECHINO IL BASTONE E LA CAROTA

Mentre popolo e politici australiani soppesano le loro sensazioni contrastanti e le loro diverse priorità, gli interessi del business cinese, le ambizioni militari e i mezzi di propaganda della Cina attuano un’offensiva ‘nascosta’, eppure facilmente osservabile.

ABC News Australia ha riferito che fra il 2013 e il 2015 società e associazioni cinesi hanno fornito 5 milioni e 500 mila dollari australiani (3 milioni 640 mila euro) come sponsorizzazione a politici australiani.

Secondo quanto riportato il 30 agosto dal Sidney Morning Herald, quando l’anno scorso Dan Dastyari, un senatore del Partito Laburista ha esaurito i rimborsi sui viaggi e l’alloggio forniti dallo Stato, gli extra sono stati pagati dal Top Education Institute, un istituto privato cinese con sede a Sidney diretto da Zhu Minshen, un funzionario comunista cinese. Questo è solo uno dei molti favori che Dastyari ha ricevuto dalla Cina, Paese cui ha fatto visita in molteplici occasioni. A gennaio, si è recato a Pechino su un volo pagato dal Partito Comunista Internazionale.

Zhu è un consulente senior dell’Istituto Confucio di Sidney, uno fra le centinaia di programmi sponsorizzati dal regime cinese associati a scuole e università. I critici ritengono che questi istituti attirino le amministrazioni locali con l’educazione linguistica a basso costo e promuovano la visione del mondo del regime cinese, escludendo le opinioni di dissidenti e minoranze.

A maggio, il China Daily, una branca in lingua inglese di un media di Stato cinese, ha stipulato un accordo con Fairfax Media e un altro importante giornale di informazione australiano perché includano nelle loro pubblicazioni un inserto di 8 pagine del China Daily.
I media in lingua cinese in Australia mostrano Pechino in una posizione di forza e, secondo il Sidney Morning Herald, il 95 percento dei giornali di informazione disponibili sono almeno parzialmente controllati da Pechino.

Con la combinazione di sponsorizzazione economica e influenza propagandistica nella società e nella politica australiana, Pechino ha un forte potere geopolitico e finanziario nei confronti di Canberra, utilizzabile nel caso la situazione nelle dispute asiatiche dovesse mettersi male. L’Australia potrebbe non essere in grado di sostenere i propri alleati dato che la volontà politica di farlo è già stata compromessa.

In una precedente intervista, una fonte vicina all’intelligence americana ha dichiarato a Epoch Times che la Cina dietro le quinte utilizza minacce per stabilire il tono delle proprie relazioni con l’Australia. La fonte ha riassunto la retorica di Pechino: «Dovreste essere partner della Cina. Noi siamo così vicini. Se dovesse verificarsi qualcosa, gli Stati Uniti non arriverebbero in tempo per salvarvi».

In luglio, le tensioni nel Mar Cinese Meridionale sono aumentate a seguito di una sentenza delle Nazioni Unite che ha negato le rivendicazioni cinesi sulla quasi totalità della regione. Dopo che il governo australiano ha manifestato il proprio supporto alla sentenza, la propaganda cinese ha risposto sul tabloid in lingua inglese Global Times, definendo l’Australia «l’unico Paese con una storia ingloriosa».

In un graffiante editoriale intitolato «Lettiera per gatti, l’Australia la pagherà», il Global Times ha sbandierato, mancando alquanto di sobrietà, la ‘grande potenza economica della Cina, dicendo che «l’Australia ha sottoscritto un libero accordo commerciale con la Cina, il suo più grande partner di mercato. La sua mossa di disturbo nelle acque del Mar Cinese Meridionale ha sorpreso molti».
Il tabloid del Partito Comunista ha continuato dicendo che «l’Australia non è nemmeno una ‘lettiera per una tigre’, perché al massimo può solamente essere una ‘lettiera per gatti’. Nel momento in cui il Regno Unito, ex ‘custode’ della nazione, si è dedicato allo sviluppo delle relazioni con la Cina, e praticamente l’intera Europa ha preso una posizione neutrale, l’Australia si è inaspettatamente resa pioniere del disturbo degli interessi cinesi. Se l’Australia passerà nelle acque del Mar Cinese Meridionale, sarà un bersaglio ideale per il ‘fermo o sparo’ cinese».
Queste considerazioni combattive contrastano con le affermazioni rilasciate l’anno scorso dall’ex ambasciatore cinese Ma Zhaoxu, il quale ha riferito al The Australian che «la Cina non è una minaccia strategica per l’Australia ma un completo partner strategico. Entrambi godiamo di incredibili interessi comuni fra i nostri due Paesi».

TRACCIARE LINEE

Qualunque sia il colore delle bandiere politiche e delle tendenze domestiche, i leader australiani hanno finora mantenuto le relazioni e le notevoli potenzialità del Paese nella regione.

L’ Australian Financial Review ha riportato le parole di Andrew Shearer, un consulente di sicurezza nazionale dell’ex primo ministro Tony Abbot, durante una presentazione tenutasi a Washington a aprile. Shearer sostiene che la militarizzazione della Cina nel Mar Cinese Meridionale ha minacciato di destabilizzare la regione Asia-Pacifico, e che questo, in aggiunta «all’imprevedibile dittatore armato del nucleare» della Corea del Nord, ha reso la questione «molto più complicata» per l’Australia e i suoi alleati americani.
Review scrive che Shearer si oppone alle posizioni pro-Pechino che sostengono che l’Australia dovrebbe «allentare il proprio legame di difesa con l’America per far posto alla crescita dell’economia con la Cina», e consiglia che la cooperazione militare e la coordinazione con gli Stati Uniti vengano ampliate.

Nel mese di aprile l’Australia ha firmato un accordo con la Francia per procurarsi dei sottomarini d’attacco all’avanguardia, un evento inaspettato alla luce delle precedentemente anticipate negoziazioni per acquistare i Soryu-class giapponesi. Sebbene quest’ultimo accordo non sia stato ultimato, è un qualcosa di significativo perché mostra il desiderio del governo australiano di avvicinarsi al Giappone, e simultaneamente rappresenta un’evidente esibizione dei ‘muscoli’ da parte dell’esercito giapponese.

Dopo la Seconda Guerra Mondiale, il Giappone ha autorizzato l’esportazione di armi solo dal 2014, quando il primo ministro Shinzo Abe, uno statista conosciuto per la sua forza nel contrastare le le provocazioni della Cina riguardanti un arcipelago di isole non distanti da Okinawa, ha modificato con successo la costituzione pacifista del Paese.

Allo stesso tempo, ci sono indicazioni secondo cui, nonostante il denaro cinese che finisce nel mercato e nella società australiana, la corruzione possa arrivare solo fino a un certo punto.
Verso la fine di agosto, Reuters ha riportato che Cheng Jingye, ambasciatore cinese in Australia, ha incontrato il primo ministro Malcolm Turnbull e ha richiesto di «impedire il protezionismo», dopo che due imprese cinesi una settimana fa sono state bloccate mentre volevano acquistare delle quote di un’importante rete energetica locale. In precedenza inoltre, un altro tentativo di acquisto di una grossa società di bestiame era stato respinto.  

Il 29 agosto un presidente di una società immobiliare ha sollecitato i cinesi australiani a utilizzare meglio la loro ricchezza per influenzare i politici locali.
Huang Xiangmo, vertice del Gruppo Yuhu e donatore di più di un milione di dollari ai politici australiani, in un editoriale sul Global Times ha scritto che «la comunità cinese in Australia è inesperta nell’usare le donazioni politiche per far realizzare le loro richieste politiche. Abbiamo bisogno di imparare come ottenere una più efficiente combinazione fra richieste e donazioni politiche».
L’Australian Financial Review ha riferito che sebbene Huang affermasse che è sleale associare il denaro donato da individui cinesi a un’atto del regime stesso, lui stesso ha donato 1 milione e 800 mila dollari al Politecnico di Sidney per realizzare l’Istituto per le Relazioni Australia-Cina. Questo istituto è favorevole a «una visione positiva e ottimistica delle relazioni fra Australia e Cina» e sostituisce il precedente Dipartimento degli Studi Cinesi, che era maggiormente critico nei confronti di Pechino.

 Per approfondire: 


Articolo in inglese: How China Is Trying to Wrest Australia Out of US Alliance

Traduzione di Davide Fornasiero

 
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