Perché il G20 è stato un fallimento

Crescita inclusiva, energia pulita, maggiori scambi commerciali e allontanamento da un crisis management finanziario a favore di una pianificazione a lungo termine. Questi erano gli obiettivi ufficiali del G20 2016 di Hangzhou, in Cina.

Secondo Xinhua, media di Stato cinese, il 26 agosto a New York il segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon ha dichiarato: «La leadership cinese ha guidato il dibattito per facilitare il G20 a spostarsi da un crisis management a breve termine a una prospettiva di sviluppo a ampio raggio».
Ma la realtà, specialmente per i ‘padroni di casa’, non rispecchia questa visione: appena sotto la superficie sono presenti delle forti frizioni dato che, anche tralasciando la grave situazione geopolitica del Mar Cinese Meridionale, la ‘Terra di Mezzo’ si trova attualmente a dover affrontare una crisi economica.

Né l’Occidente né la Cina sanno come risolvere i problemi di sovraproduttività e debito di questo Paese senza rovinare il commercio mondiale e la globalizzazione, per non parlare poi della promozione della crescita inclusiva e dell’energia pulita.
Un diplomatico occidentale che lavora a Pechino ha dichiarato al The Fiscal Times che «la Cina è infuriata praticamente con tutti al momento. Tali problemi sono un campo minato per la Cina».

EFFETTO GLOBALE

Nonostante il sistema finanziario cinese sia relativamente chiuso, la crescita economica di molti Paesi come Brasile e Australia, dipende dal grande consumo di materie prime della Cina. Altri, come gli Stati Uniti, non dipendono in modo vitale dal flusso in entrata dei capitali cinesi ma ormai si sono abituati a scambiare buoni del tesoro e immobili di New York in cambio di beni a basso costo.

Teoricamente, l’Occidente starebbe esortando la Cina a percorrere il proprio percorso ufficiale e a riequilibrare la sua economia, passando dalle esportazioni manifatturiere e gli investimenti nelle infrastrutture a un’economia maggiormente guidata dal consumo e dai servizi.
Così facendo il deficit di mercato degli Stati Uniti e della maggior parte dell’Europa verrebbe ridotto. Inoltre, importando beni e servizi Occidentali piuttosto che materie prime, i consumatori cinesi avrebbero un maggior reddito spendibile nel Paese.
Sul South China Morning Post, Andie Xie, un economista indipendente, scrive: «La necessaria riforma strutturale renderebbe la Cina il più grande mercato di beni di consumo del mondo. Ogni altra economia ne gioverebbe».

I leader cinesi e i media di Stato hanno ripetutamente ribadito la loro presenza dietro tali obiettivi. A tal proposito Xinhua ha citato il Premier Li Keqiang, il quale sostiene che il Paese non ha alcun piano B: «Quelli richiesti non sono degli aggiustamenti temporanei: il mio governo ha resistito alle tentazioni dell’alleggerimento quantitativo e alla svalutazione competitiva della valuta. Al contrario, noi abbiamo optato per una riforma strutturale».

Il leader del regime XI Jinping ha ulteriormente sottolineato l’importanza della riforma durante un meeting dell’Ente per la completa applicazione delle riforme. Xinhua riguardo il comunicato dell’Ente scrive: «Il Paese dovrebbe concentrarsi maggiormente sulle riforme del sistema economico e migliorare i meccanismi fondamentali che sostengono questa ristrutturazione»

Tuttavia la Cina non ha completamente seguito il piano delle riforme, la qual cosa causerà a breve delle turbolenze; inoltre le amministrazioni locali non sono preparate per gestire il malcontento dei lavoratori. Per esempio, la provincia di Hebei avrebbe dovuto ridurre la propria capacità di produzione dell’acciaio di 18,4 milioni di tonnellate nel 2016, ma secondo Goldman Sachs, alla fine di luglio aveva ridotto la produzione solo di 1,9 milioni di tonnellate.

Secondo i risultati di un’indagine svolta dalla società di ricerca Fathom Consulting, più di 6 milioni di persone perderanno il lavoro a causa del programma di riequilibrio del regime, tanto che il tasso di disoccupazione ufficiale potrebbe raggiungere il 12,9 percento.

(Goldman Sachs)

La provincia di Hebei avrebbe dovuto ridurre di 18,4 milioni di tonnellate la capacità di produzione di acciaio annuale, alla fine di luglio era riuscita a ridurla di solo 1,9 milioni di tonnellate. (Goldman Sachs)

Le economie di Australia, Brasile, Russia e Sud Africa – per la maggior parte esportatrici di materie prime – hanno subito un rallentamento a causa del collasso delle importazioni da parte della Cina, rallentamento che secondo la World Trade Organization ammontava al 14,2 percento nel solo 2015. Nel 2015, le importazioni e le esportazioni internazionali hanno registrato delle pesanti cadute, rispettivamente del 12,4 e 13,5 percento.

Australian exports and imports (World Trade Organization)

Importazioni e esportazioni australiane. (World Trade Organization)

Questo collasso del mercato mondiale è avvenuto prima che la Cina iniziasse a implementare i propri obiettivi di riduzione della sovraproduttività, liberalizzazione dei conti capitali e di fluttuazione della propria valuta. Ma, invece che continuare a agire in linea con le riforme, la Cina sta guadagnando tempo mettendo altro denaro nell’economia, in particolare investendo sulla costruzione di infrastrutture attraverso le imprese di Stato e le amministrazioni locali; il tutto mentre le società private si trovano a dover gettare la spugna.

IL PROBLEMA DEL DEBITO

Il governo cinese ha inoltre richiesto alle banche di non far fallire le società inadempienti, ma al contrario di rinnovare i loro prestiti o di convertire il loro debito in capitale.

La vera domanda che l’Occidente e la Cina dovrebbero porsi è quanto dolore sono in grado di sopportare a breve termine per raggiungere gli obiettivi della riforma cinese e conseguire un riequilibrio verso l’economia dei consumi.

A tal proposito un documento rilasciato dalla Brookings Institution afferma: «Per scongiurare una crisi finanziaria che sarebbe negativa sia per la Cina che per il mondo, il governo ha bisogno di serrare i vincoli di bilancio, permettere ad alcune società di andare verso la bancarotta, riconoscere le perdite nel sistema finanziario e ricapitalizzare le banche se necessario […] la Storia dimostra come sia più sensato aiutare le comunità e i lavoratori colpiti piuttosto che provare a tenere in vita società che non hanno prospettive di successo».
Tuttavia, i rimedi proposti, i quali sarebbero positivi per la Cina e per il mondo a lungo termine, non possono essere attuati senza uno sconvolgimento del sistema finanziario globale a breve termine.

Jim Rogers, un investitore miliardario, ha individuato la questione principale durante un’intervista a Real Vision TV: «Mi sarebbe certamente piaciuto vedere maggiori forze di mercato ovunque, incluso in Cina. Se dovesse succedere, probabilmente vedremo più fluttuazioni nel valore della valuta».
Suona innocuo, ma se dovesse succedere sarebbe molto dannoso per il mercato e il sistema finanziario globale. Se la Cina vuole monetizzare le perdite accumulate attraverso 15 anni di sbagliata allocazione di capitali, dovrà ricapitalizzare le banche per un ammontare di 3 trilioni di dollari.
Azione non possibile senza un sostanzioso intervento da parte della Banca Centrale, quello che Li Keqiang vorrebbe evitare. Sul lato opposto, i risparmiatori cinesi proveranno a spostare ancora più denaro all’estero per difendere il proprio potere d’acquisto.

Solo nel 2015 la Cina ha perso 676 miliardi di dollari di capitali, soprattutto a causa del fatto che le imprese e i cittadini vogliono diversificare i loro risparmi, maggior parte dei quali si trovano bloccati nel sistema bancario cinese.

Secondo la maggioranza degli esperti, se la Cina iniziasse a ristrutturare i debiti delle società e a ricapitalizzare le banche su grande scala, lo yuan si svaluterebbe almeno del 20 percento.

COLLASSO DEL MERCATO

La Cina gioca un ruolo importante: le importazioni e le esportazioni nel 2015 ammontavano a 4 trilioni di dollari di bene e servizi; un 20 percento di svalutazione della valuta cinese distruggerebbe il meccanismo dei prezzi delle importazioni e esportazioni in tutto il mondo. Un vero scenario apocalittico.

Hugh Hendry, principale portfolio manager dell’Ecletica Asset Management, in un’intervista a Real Vision TV ha infatti dichiarato: «Sarebbe la fine del mondo. L’euro si sfascerebbe; non ci sarebbe euro in quello scenario. Tutto crollerebbe. Non vi è futuro in un mondo in cui la Cina svaluta del 20 percento. La loro quota del mercato mondiale non è mai stata così alta […] Potrebbe distruggere l’industria globale».

Per lo Stato cinese stesso, importatore netto di beni alimentari, una svalutazione renderebbe ogni bene essenziale ancor più costoso per la maggior parte della popolazione, cosa che aggiungerebbe ulteriore tensione sociale alla pressione della disoccupazione.

La Cina è insomma condannata sia che faccia le riforme o no. Anche l’Occidente non vorrebbe un repentino e doloroso scenario di svalutazione, ma non si trova nelle migliori condizioni per offrire alternative.

Un’altra opzione, eventualmente discutibile ora che il G20 è terminato, riguarda lo scenario del Giappone. La Cina non vuole realizzare i debiti inesigibili, continuerà a mantenere in vita le ‘aziende zombie’ e impedirà al denaro di muoversi all’estero, continuando a non adempiere alle ambiziose riforme programmate.

La banca d’investimenti Morgan Stanley in una nota afferma: «Al posto di una immediata rettifica, un ‘approccio di cambiamento graduale’ produrrebbe un lungo periodo di eccesso di capacità produttiva, pressioni disinflazionistiche e crescita nominale e ritorni economici in declino».

La Cina, l’Occidente e il Giappone condividono lo stesso problema di eccesso di debito, e non esiste nessun espediente per liberarsene. Ma non nominando nemmeno il vero problema – quando era il momento ideale per farlo – e scegliendo di parlare delle questioni minori che fanno ‘sentire meglio’, il G20 ha di fatto ammesso il proprio fallimento.


Articolo in inglese: Why the G20 Agenda Misses the Point

Traduzione di Davide Fornasiero

 
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