Un rimescolamento inedito ai vertici del Partito comunista cinese sta attirando l’attenzione degli osservatori, alimentando persino interrogativi sul futuro di Xi Jinping.
Il 2 aprile, gli organi di propaganda del regime cinese hanno confermato l’avvicendamento tra due figure di punta del Comitato permanente del Politburo: Shi Taifeng, 68 anni, ha lasciato la guida del ministero del lavoro del Fronte unito per assumere la direzione del potente ministero dell’Organizzazione del Partito, ente che decide le nomine interne. Al suo posto, è subentrato Li Ganjie, 60 anni, che guidava proprio il ministero dell’Organizzazione.
Per gli analisti, si tratta di un evento senza precedenti nella storia del Pcc, e direttamente legato al prestigio personale di Xi Jinping: lo scambio tra Shi e Li sarebbe la spia del malcontento di Xi per l’inefficacia delle operazioni del Fronte unito su Taiwan, e potrebbe essere foriero di un nuovo giro di epurazioni all’interno del regime. Insomma tutti segnali di un indebolimento dell’autorità del capo del Partito (e del regime cinese).
Quando è salito al potere nel 2013, Xi Jinping ha ordinato una dura campagna “anticorruzione” mirata a far fuori i rivali delle altre fazioni del Pcc. Quell’operazione ha avuto successo, ma negli ultimi anni perfino diversi suoi uomini di fiducia sono finiti nel suo mirino. Due esempi emblematici sono Qin Gang, ex ministro degli Esteri, prima scomparso per mesi e poi privato di ogni potere e messo in un angolo, e Li Shangfu, ex ministro della Difesa rimosso nel giugno 2024 sempre per “corruzione”; entrambi hanno ricoperto le rispettive cariche per il periodo più breve nella storia del regime comunista cinese.
«Uno smacco cocente per Xi Jinping, che li aveva scelti personalmente» ha osservato Wang Youqun, ex collaboratore di un membro del Comitato permanente del Pcc. Malgrado mantenga salda la propria presa sulle posizioni chiave, Xi Jinping si trova ora a fronteggiare sempre più (gravi) problemi: crisi economica, isolamento internazionale e fallimentare gestione della pandemia (che in Cina pare non sia mai realmente finita).
A questi problemi si aggiunge l’ombra della scomparsa di He Weidong, vice presidente della Commissione militare centrale e stretto alleato di Xi che è sparito da settimane, probabilmente finito sotto inchiesta. Questa sparizione segue la destituzione di Miao Hua, capo della Commissione militare centrale, rimosso a novembre 2024 per gravi violazioni disciplinari. He Weidong era l’uomo più fidato che Xi aveva nelle forze armate e Miao Hua era il numero due; la loro eliminazione sarebbe quindi rappresentativa di un grave problema di controllo da parte di Xi sui militari: il suo bisogno, sempre più ossessivo, di arrivare a una centralizzazione assoluta del proprio controllo sulle forze armate. D’altronde, Xi Jinping starebbe imponendo ai militari una rigida disciplina ideologica, fondata su “autoesami autocorrezioni”, che starebbe generando serie tensioni nello stato maggiore cinese.
Alcuni esperti taiwanesi interpretano il cambio ai vertici del Fronte unito come una risposta all’insuccesso delle manovre del Pcc per influenzare Taiwan. La vittoria dell’indipendentista Lai Ching-te alle presidenziali del gennaio 2024 e l’aumento delle pressioni per rimuovere politici filocinesi dal Parlamento taiwanese, ne sarebbero un segnale evidente. Secondo sondaggi interni citati dagli analisti, il 60% dei taiwanesi è contrario alle ingerenze del regime cinese a Taiwan.
Rimane il fatto che Xi Jinping si stia accanendo sempre di più contro chi, ora più che mai, dovrebbe essergli più prezioso, vista la sua (quasi certa, secondo gli analisti) intenzione di invadere Taiwan: i militari. E quando un dittatore inizia a eliminare così tanti fedelissimi in così poco tempo, di solito è segno di paura. O di debolezza.