Il ritorno di Trump intensifica le politiche commerciali nei confronti della Cina, con dazi più alti e restrizioni più severe. Ma sono in cantiere ulteriori leggi volte a paralizzare economicamente il regime cinese, tra cui un disegno di legge per revocare alla Cina lo status di “nazione favorita” a livello commerciale. Il disegno di legge approvato sia dalla destra che dalla sinistra, segue l’ordine esecutivo di Trump che prende in esame alcune riforme legislative nei confronti dello status commerciale di Pechino.
Concesso nel 2000 nella speranza che il regime cinese adottasse pratiche commerciali eque, lo status ha invece incentivato il trasferimento della produzione manifatturiera in Cina, il furto di proprietà intellettuale e le pressioni economiche da parte del Pcc. Il provvedimento legislativo impone un dazio del 35% sui beni non essenziali e del 100% su quelli essenziali nell’arco di cinque anni. Inoltre, pone fine al trattamento de minimis per la Cina, limitando la spedizione di prodotti a basso costo senza imposte verso gli Stati Uniti. I ricavi dei dazi sono destinati agli agricoltori e ai produttori americani, oltre che a potenziare le difese militari nel Pacifico.
La Commissione per il commercio internazionale ha confermato che i dazi hanno ridotto la dipendenza dalle importazioni cinesi senza influire negativamente sull’inflazione. La riforma dello status cinese è dunque considerato fondamentale per ripristinare la capacità industriale americana, garantire la sicurezza nazionale e contrastare le pressioni economiche del regime. Secondo la Camera di commercio americana in Cina (AmCham), grazie alle politiche di Trump, un numero sempre maggiore di aziende americane vuole trasferire la propria produzione altrove: il 30% di queste intenzionate a farlo già nel 2024, superando il 24% del 2022. Oltre la metà delle aziende americane considera la tensione tra Stati Uniti e Cina un grosso problema; questa situazione avvantaggia alleati degli Stati Uniti come l’India e il Sud-est asiatico, ovvero le principali destinazioni delle imprese.
Il 18% delle società sta considerando il ritorno in patria, un aumento del 2% rispetto all’anno precendente. Sempre più aziende, quindi, stanno seguendo questa tendenza per ridurre i rischi legati alle tensioni tra USA e Cina. La già difficile economia cinese potrebbe non reggere ulteriori pressioni dai nuovi dazi imposti da Trump su 500 miliardi di dollari di beni cinesi. Sebbene Pechino dichiari di essere cresciuta del 5% nel 2024, resta uno dei dati più bassi toccati negli ultimi decenni, determinato da una prolungata crisi immobiliare, un alto indebitamento dei governi locali e una crescente disoccupazione giovanile.
Secondo AmCham, le aziende statunitensi inoltre guadagnano meno a causa del calo dei consumi e della concorrenza delle aziende locali, e oltre la metà subisce perdite per il terzo anno consecutivo. Diminuisce, di conseguenza, la fiducia degli investitori, non considerando più Pechino il luogo ideale per i propri investimenti.
La recente crescita cinese è dovuta in gran parte alle esportazioni derivanti dalla produzione industriale, in particolare veicoli elettrici e altri beni; uno sviluppo ora minacciato dai dazi imposti da Stati Uniti, Canada e Unione Europea. Allo stesso tempo, rincara la dose una debole spesa interna, per i consumi delle famiglie che nel 2024 hanno contribuito all’economia solo per il 29%, in netto calo rispetto al 59% del periodo Covid. Questo declino è ulteriormente aggravato dal calo dei valori immobiliari e dai salari stagnanti, rendendo la Cina sempre più dipendente dalle esportazioni per sostenere la propria crescita.
Il malcontento cinese cresce, con oltre 900 proteste di problemi economici registrate tra giugno e settembre 2024; un aumento del 27% rispetto all’anno precedente, secondo China Dissent Monitor. Il Pil cinese ha raggiunto il 5% nel 2024, in netto calo rispetto al 6,7% del 2016, rendendo Pechino ancora più vulnerabile alle restrizioni commerciali americane.
L’anno scorso la Cina ha registrato un record commerciale di mille miliardi di dollari grazie alle esportazioni, soprattutto prima dell’arrivo di Trump. Ma è stato un fuoco di paglia: Pechino ha dovuto cambiare strategie commerciali, esportando di più verso mercati più piccoli, come quello russo, che raggiunge appena i 237 miliardi di dollari. Questa strategia non basta però a compensare il calo della domanda dei mercati occidentali e, inoltre, mantenere gli scambi con Mosca dipende largamente dalla politica di Trump e da eventuali sanzioni contro la Cina per il suo sostegno alla guerra in Ucraina.
Anche la crisi immobiliare continua a pesare sulla bilancia, con investimenti in calo del 25% rispetto al picco del 2021, a seguito della politica delle “Tre linee rosse” di Pechino, che ha limitato i finanziamenti alle società immobiliari. Il settore, che un tempo rappresentava un terzo del Pil è oggi in pessime acque: milioni di appartamenti venduti sulla carta ma con i cantieri bloccati e i mutui boicottati dai cittadini; il che mette a dura prova la fiducia dei consumatori. La spesa delle famiglie infatti rimane debole, con un valore inferiore al 40% del Pil, ben al di sotto delle medie mondiali. Secondo la Banca Centrale cinese, il 62% dei cittadini preferisce risparmiare piuttosto che spendere o investire, un valore in netto aumento rispetto al 44% del 2018. Solo il 10% valuta positivamente il mercato del lavoro cinese, in calo rispetto al 16% del 2018.
Mentre Pechino fatica a stabilizzare il mercato immobiliare, stimolare la domanda interna e gestire i cambiamenti del commercio globale, i dazi di Trump aggiungono un ulteriore tassello di incertezza a un’economia già fragile. In risposta, il Pcc ha intensificato la censura su dati economici negativi, facendo pressione su analisti e influencer per evitare critiche. Nel frattempo, lo “sgancio economico” dalla Cina rafforzerà la sicurezza nazionale degli Stati Uniti, aiuterà a ricostruire il settore manifatturiero americano e stimolerà investimenti, occupazione e crescita economica nei Paesi alleati degli Usa in Asia, poiché non solo le aziende americane, ma anche quelle europee si trasferiranno altrove per evitare i dazi statunitensi.