Quando il sedicenne Sant’Agostino d’Ippona rubò e mangiò una manciata di pere dal frutteto del suo vicino, provò un fastidioso rimorso. Nelle Confessioni si chiese perché avesse rubato del cibo pur non avendo fame. Giunse alla conclusione che nessuno desidera il male per amore del male. Piuttosto, desideriamo beni minori, immediatamente gratificanti, piuttosto che beni maggiori. Questa intuizione sulla natura del peccato ha dato origine alle riflessioni che sono diventate in seguito la sua opera più famosa.
L’accademico e teologo britannico Henry Chadwick ha descritto le Confessioni come uno dei «grandi capolavori della letteratura occidentale». Dopo una serie di candide riflessioni sulla propria giovinezza, Agostino nel libro ripercorre le lotte in età adulta contro il peccato e il paganesimo. La progressione di Agostino dal peccato alla virtù è resa evidente nel corso delle tre fasi del suo rapporto con il linguaggio, che, come scoprì infine, era lo stesso rapporto che l’avrebbe portato a Dio.

AGOSTINO E LA RETORICA
Agostino nacque nel 354 d.C. a Thagaste, nella provincia dell’Impero romano di Numidia, l’odierna Algeria. A 11 anni inizia a frequentare la scuola, familiarizza con la letteratura latina e le credenze pagane romane. A 17 anni si trasferisce a Cartagine per studiare retorica ma, attratto dalle seduzioni di una città vivace, Agostino si associa ad adolescenti indisciplinati, sviluppando una dipendenza dal comportamento lussurioso. Questo problema persiste fino all’età adulta, quando diventa professore di retorica presso la corte imperiale di Milano.
Sebbene Agostino sia eccellente nell’insegnamento e nell’oratoria, l’interesse per la retorica finalizzata ai guadagni terreni lo logora interiormente. La vana ricerca di uno status diventa fonte di disgusto per se stesso. Vede come la retorica insegni a nascondere le bugie con l’astuzia, e inganni le masse presentando i misfatti, elegantemente articolati, sotto una luce più favorevole rispetto alle buone azioni. Quando i retori «descrivevano le loro brame con un ricco vocabolario di prosa ben costruita, con uno stile copioso e ornato, ricevevano lodi e si congratulavano con se stessi».
Il mondo della retorica nel quale Agostino si forma privilegia il successo materiale rispetto a qualsiasi altra cosa. Le sue eccellenti capacità linguistiche gli valsero lo status di uno dei migliori retori dell’Impero romano, ma la sua ascesa verso la fama era dovuta unicamente alla ricerca dei «beni minori» che egli associa poi al furto delle pere: vanità, denaro, celebrità.
Fortunatamente, l’inebriante immersione in questo mondo aveva un lato positivo, che Agostino riconosce quando legge per la prima volta testi di filosofia.
AGOSTINO E LA FILOSOFIA
Quando legge l’Hortensius di Cicerone, Agostino ne è colpito. In questo dialogo, lo statista romano parla dell’avversario e amico Quinto Ortensio Ortalo. Nonostante fosse un suo rivale nell’arena legale della Repubblica romana, Cicerone ammirava l’ampiezza delle conoscenze di Ortensio. Nel dialogo, i due discutono su quale sia l’uso migliore del tempo libero e si accordano sulla “filosofia” come risposta.
Non è lo stile di Cicerone a ispirare Agostino, ma le sue idee. Cicerone esortava il lettore a perseguire «la saggezza, ovunque si trovi», con una mente curiosa e decisa. Questo incoraggiamento spinge Agostino a riconsiderare i propri inconsistenti impegni spirituali: «Ogni vana speranza mi divenne subito inutile; e bramavo con un desiderio incredibilmente ardente l’immortalità della saggezza, che cominciava ora a sorgere». Lo stesso vale per i testi platonici che Agostino aveva letto da adolescente: attraverso la filosofia pagana, si allontana lentamente dalla retorica terrena.
Tuttavia, la filosofia non era sufficiente per aiutarlo a guarire dal malessere morale. Come si rende conto più tardi, gli autori pagani non dicevano nulla dell’Incarnazione: «che il Verbo si sia fatto carne e abbia abitato in mezzo a noi, non l’ho letto». Anche se non mirava a una sapienza superiore, Agostino riconosce l’importanza essenziale della fede cristiana solo dopo l’incontro con sant’Ambrogio.
SANT’AMBROGIO E LA CONVERSIONE DI AGOSTINO
Sant’Ambrogio era un teologo, ricoprì la carica di vescovo di Milano dal 374 al 397, e fu lui a insegnare ad Agostino a leggere le Scritture in modo allegorico, con particolare attenzione a simboli e metafore piuttosto che ad affermazioni letterali. Il teologo «esponeva spiritualmente» i passi la cui spiegazione letterale «sembrava contenere un insegnamento perverso». Nell’ultimo capitolo delle Confessioni Agostino dà un esempio di tale lettura allegorica, discutendo i passi della Genesi che trattano di «pesci e balene» che, secondo lui «simboleggiano i sacramenti dell’iniziazione e il prodigio miracoloso necessari per iniziare e convertire ‘persone non istruite e non credenti’».
Quando incontra Ambrogio, Agostino conosce già la Bibbia, aveva tuttavia perso la speranza negli insegnamenti della Chiesa cattolica. Come ammise, cominciò ad amare Ambrogio «non come maestro di verità, perché avevo del tutto disperato di trovarla nella tua Chiesa, ma come uomo amichevole». La loro amicizia segna l’ultimo cambiamento di paradigma nel rapporto di Agostino con il linguaggio. Fino a quel momento Agostino aveva usato le parole per ottenere vantaggi materiali o per studiare la filosofia pagana, ora era pronto alla comprensione del linguaggio più alto e profondo prodotto dall’umanità: la Sacra Scrittura.
Nel 386 Agostino si converte al Cristianesimo. Come racconta nelle Confessioni, sentì la voce di un bambino che lo invitava a «prendere e leggere», aprì allora a caso una lettera di San Paolo, che lo esortava ad abbandonare l’ubriachezza e la lussuria. Quello che lesse lo colpì così profondamente che decise di dedicare il resto della propria vita alla predicazione del Vangelo. Dopo la conversione, lascia il posto di insegnante di retorica. Fu ordinato sacerdote nella sua città natale, Ippona, nel 391.

ARRIVARE A DIO ATTRAVERSO LE PAROLE
La lotta di Agostino, durata tutta la vita, con il linguaggio e il suo possibile utilizzo è implicita nell’incipit delle Confessioni. Dopo aver lodato Dio con una poesia introduttiva, Agostino si chiede: «Ma con queste parole che cosa ho detto, mio Dio, mia vita, mia santa dolcezza? Che cosa ha ottenuto qualcuno con le parole quando parla di te?». Il vescovo sapeva che tentare di descrivere Dio limita la sua natura insondabile a concetti riduttivi. Tuttavia, sapeva anche che le parole sono necessarie per esaltare la creazione di Dio: «Ma guai a coloro che tacciono su di te perché, pur essendo loquaci con la verbosità, non hanno nulla da dire».
Nel corso della sua vita, Agostino impara che il linguaggio fine a se stesso è fatalmente difettoso. Passa dalla pratica e dall’insegnamento della retorica per ottenere vantaggi materiali, allo studio della filosofia classica come fonte di saggezza pagana, fino alla conversione al Cristianesimo e all’adozione del linguaggio sacro come suo uso più elevato. Da 2Timoteo 2:14 trae l’insegnamento che le persone dovrebbero «evitare le vane discussioni, che non giovano a nulla, se non alla perdizione di chi le ascolta». Piuttosto, dovremmo usare il linguaggio come strumento per conoscere noi stessi e il nostro posto nel sacro cosmo. Nonostante i limiti del linguaggio, è solo attraverso le parole e in ultima analisi attraverso la Parola, che Agostino giunse a una comprensione parziale ma appagante di Dio.
Qualunque sia la nostra appartenenza religiosa, la vita di Agostino ci offre un esempio puntuale di come sia un viaggio spirituale attraverso il linguaggio, affinché anche noi possiamo conoscere i segreti del nostro cuore.