Salari da fame e Stato parassita, la Cina e la vera faccia del comunismo

di Yuan Bin per ET USA
28 Aprile 2025 14:41 Aggiornato: 28 Aprile 2025 14:41

Il Partito comunista cinese si è intrappolato da solo in uno squilibrio economico, caratterizzato fondamentalmente da produzione alle stelle e una debole domanda interna. Alla base dell’economia cinese, una popolazione estremamente laboriosa ma con salari ridicoli.

Nel 2023, secondo i dati della Divisione Statistica delle Nazioni Unite, la Cina ha dominato la produzione manifatturiera mondiale, raggiungendo il valore di 4 mila miliardi e 600 milioni di euro, pari al 29% della produzione manifatturiera mondiale, superando i quattro principali concorrenti, ossia Stati Uniti (17,2%), Giappone (5,1%), Germania (5,1%) e India (2,8%).

A sostenere questa produttività sono, in realtà, i lavoratori cinesi, tra i più instancabili al mondo, con una media di 46 ore settimanali nel 2024, rispetto alle 38 ore degli americani, stando all’Organizzazione Internazionale del Lavoro. In Cina, il termine “996” – dalle 9 di mattina alle 9 di sera, sei giorni a settimana – descrive la cultura del lavoro estenuante, diffusa nei settori tecnologico e manifatturiero.

Questi dati rivelano una verità innegabile: i cinesi non sono solo laboriosi, ma tra i più produttivi al mondo. Eppure, il loro sforzo non si traduce in un reddito adeguato o in una certa sicurezza economica. Nel 2020, l’allora premier Li Keqiang ha ammesso che 600 milioni di cinesi – quasi metà della popolazione – vivevano con un reddito medio mensile di appena 1000 yuan (circa 130 euro).

Uno studio del 2019 dell’Istituto per la Distribuzione del Reddito dell’Università di Pechino ha rivelato che 220 milioni di cinesi vivevano con meno di 500 yuan al mese (circa 64 euro), evidenziando la povertà diffusa tra una parte significativa della popolazione. Nel frattempo, i dati ufficiali più recenti mostrano che gli anziani nelle aree rurali vivono con pensioni di appena 123 yuan al mese, ovvero circa 16 euro, insufficienti per coprire le necessità di base.

I turisti cinesi che affollavano i negozi di lusso in Stati Uniti ed Europa prima della pandemia rappresentavano solo una minuscola frazione rispetto al miliardo e 400 milioni di cinesi. Ma, ovviamente, anche una piccola percentuale equivale a milioni di persone, abbastanza quindi da creare l’illusione che i cinesi siano ricchi.

Come può, allora, un Paese con il secondo Pil mondiale e una popolazione tra le più operose al mondo avere quasi metà dei suoi cittadini in povertà? La risposta risiede nella distribuzione della ricchezza. Secondo l’Annuario Statistico Cinese 2024, nel 2023 il totale dei salari ammontava a 19 mila miliardi e 740 milioni di yuan (circa 2 mila miliardi e 511 milioni di euro), divisi tra circa 740 milioni di occupati. Questo significa che lo stipendio medio annuo è di appena 3389 euro.
Sempre nel 2023, il Pil cinese ha raggiunto i 129 mila miliardi e 43 milioni di yuan (16 mila miliardi e 467 milioni di euro), con i salari che rappresentano solo il 15,3% del Pil, un livello ben inferiore alle economie sviluppate e molto vicino a quello dei Paesi africani.

Questa disparità rivela che la ricchezza prodotta dai lavoratori cinesi non torna indietro, ma viene in gran parte assorbita dallo Stato. Una quota significativa è destinata all’estero come cosiddetti aiuti internazionali, ironicamente definiti dai cittadini «sprechi sontuosi». Tali spese farebbero parte di una strategia per ottenere il sostegno diplomatico dei Paesi del Sud, mentre il regime cinese deve fare i conti con le critiche per violazioni dei diritti umani e norme internazionali.

Un’altra fetta del Pil è destinata alla spesa militare, la Cina infatti è il secondo Paese in termini di spesa sulla difesa al mondo. Il budget, ufficialmente fissato a 1000 miliardi e 740 milioni di yuan (circa 275 miliardi di euro) per il 2025, non convince gli analisti, che suggeriscono cifre più realistiche, ovvero tra i 438 e 651 miliardi di euro, rispetto ai 791 miliardi di euro previsti per la spesa militare degli Stati Uniti. Ancora più preoccupante è l’aumento della spesa per la sicurezza interna, definita dal regime «mantenimento della stabilità», che ha superato la spesa militare. Secondo l’Istituto per la Ricerca sulla Difesa e la Sicurezza di Taiwan, dal 2009 la Cina ha destinato ingenti fondi a sorveglianza, censura, polizia e controllo sociale per la cosiddetta “stabilità”.

Anche i costi amministrativi e burocratici sono elevati, tra i più alti al mondo. Secondo l’Ufficio Nazionale di Statistica cinese, nel 2013 i dipendenti pubblici rappresentavano il 18% della forza lavoro, saliti al 23% nel 2021, ossia quasi un lavoratore su quattro pagato con fondi pubblici. Negli ultimi anni, la Cina ha cessato di pubblicare i dati relativi al settore pubblico, un’azione che gli analisti interpretano come un tentativo di evitare allarme sociale.

La corruzione diffusa e l’appropriazione del denaro pubblico da parte dei funzionari del regime continuano a drenare la ricchezza del Paese. In sintesi, i cinesi, tra i più operosi al mondo, alimentano la seconda economia globale, ma gran parte della loro ricchezza è assorbita dal Pcc, un’entità priva di valore economico. Questo squilibrio alimenta un persistente divario di reddito, con circa 600 milioni di cittadini che vivono con meno di 130 euro al mese, di cui 220 milioni sotto i 3 euro al giorno.

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