Poesia “Alla Luna”, Sir Philip Sidney e Giacomo Leopardi

di Marlena Figge
27 Febbraio 2025 18:02 Aggiornato: 27 Febbraio 2025 18:02

A distanza di secoli, una poesia inglese e una italiana si incontrano su una collina illuminata dalla luna.

Il sole non è amico del poeta addolorato, non ispira lo stesso tipo di benevolenza che emana la luna. La luce lunare è più malleabile: può diventare sentimentale o affievolirsi, può essere di un argento misterioso o di un bianco malinconico. Innumerevoli versi sono stati dedicati alla luna accomunandola al lamento di chi soffre, al punto che sembra vero che non ci sia nulla di nuovo sotto il sole e nemmeno sotto la luna.

Tuttavia, è proprio da questo pensiero che i lettori possono trarre consolazione ed è il motivo per cui ci rivolgiamo alla poesia: lì troviamo parole che sanno descrivere le vicende della nostra esistenza. Se stiamo attraversando un’esperienza dolorosa, troviamo conforto nei versi che esprimono lo stesso nostro dolore e nel sapere che non siamo soli nella sofferenza. Qualcuno nel passato ha trovato le parole per descrivere e racchiudere la nostra stessa gioia o il nostro dolore.

Sir Philip Sidney (Penshurst, Inghilterra, 1554 – Paesi Bassi 1586) nel Sonetto 31, tratto dalla raccolta di poesie Astrophil e Stella, riprende il classico tema del lamento per un amore non corrisposto: un esempio di fallacia patetica, un espediente poetico che attribuisce emozioni o comportamenti umani a cose inanimate. Nel sonetto, Astrophil (il poeta) è alle prese con il suo amore non corrisposto per Stella  e nella sua solitudine si rivolge alla luna.

Ivan Ayvazovsky, Sailing Ship on the Sea at Moonlight. Olio su tavola. Collezione privata. Pubblico dominio

Scritto nel 1580, Astrophil e Stella 31 sembra abbastanza semplice: una futile lamentazione sul proprio destino rivolta alla luna. Tuttavia, si possono fare molte considerazioni su questo lamento, perché la nostra visione del mondo e il nostro senso di sé sono inclini a essere scossi quando altri cuori restano chiusi al nostro.

Sonetto 31

Con quali passi tristi, o luna, scali i cieli;
silenziosamente e con viso esangue.
Come può essere che persino in quel luogo celeste
quell’arciere indaffarato scagli i suoi aguzzi strali?
Sicuramente, se quegli occhi che ben discernono l’amore
lo san giudicare, tu capisci la condizione di un innamorato;
lo leggo nei tuoi sguardi; la tua grazia languida
lo rivela a me, che soffro allo stesso modo.
Allora, essendo compagni, dimmi, o luna,
l’amore costante è reputato lassù mancanza di senno?
Chi è bello è così superbo come qui?
Ama soprattutto essere amato, e tuttavia
disprezza chi da quell’amore è posseduto?
Vien chiamata virtù, lassù, l’ingratitudine?

(fonte: Alessandria Today Italia News Media,
traduzione di Luisa Zambrotta)

With how sad steps, O Moon, thou climb’st the skies!
How silently, and with how wan a face!
What, may it be that even in heav’nly place
That busy archer his sharp arrows tries!
Sure, if that long-with love-acquainted eyes
Can judge of love, thou feel’st a lover’s case,
I read it in thy looks; thy languish’d grace
To me, that feel the like, thy state descries.
Then, ev’n of fellowship, O Moon, tell me,
Is constant love deem’d there but want of wit?
Are beauties there as proud as here they be?
Do they above love to be lov’d, and yet
Those lovers scorn whom that love doth possess?
Do they call virtue there ungratefulness?

Nel salire verso il suo trono nei cieli, la luna è personificata come una compagna che soffre sotto il peso della vita. Il poeta ipotizza che il mal d’amore esista anche nei cieli: dal momento che i suoi occhi sono stati afflitti da questa malattia, egli può sicuramente giudicare quella degli altri.

L‘enjambment (dal francese: scavalcamento) nella seconda quartina è significativo, sollevando la questione della soggettività della sua osservazione del dolore della luna. Nei versi la tua grazia languida
lo rivela a me, che soffro allo stesso modo  (thy languish’d grace/ To me, that feel the like, thy state descries), il rovesciamento del pensiero nel verso successivo isola le parole a me (to me). Questo sottolinea la possibilità che sia solo il poeta a percepire lo stato di abbandono della luna. Forse non esiste affatto.

Astrophil conclude il suo dialogo con domande incalzanti: perché l’amore è visto come una debolezza e perché un cuore è tanto più virtuoso quanto più è indifferente? Perché chi desidera l’amore disprezza chi lo offre? La terza domanda rivela una verità sulla natura umana: tutti noi desideriamo essere amati, eppure spesso trattiamo con poca gentilezza chi ci apre il proprio cuore.

Sir Phillip Sidney, Incisione da un’edizione del 1591 del suo poema Astrophel and Stella. Pubblico dominio

Scriveva: «Spesso questa è la sofferenza più dura, perché incatena l’amore. L’amore vuole sempre fare qualcosa, tendere la mano, dare. Ma spesso l’altro cuore, quello dell’amato, è chiuso, e così l’amore rimane impotente. Oppure la realtà sfugge talmente distante dalla nostra volontà che, come Cristo, possiamo solo guardare, aspettare, pregare e soffrire». In questo caso, quando possiamo solo augurare del bene alla persona amata anziché fare del bene per lei, il risultato è straziante.

Compagno nella sofferenza

Tuttavia, nelle nostre sofferenze c’è un fine e, nel caso della poesia (e dell’arte in generale), è il dolore a plasmare il poeta. Giacomo Leopardi (Recanati 1798 – Napoli 1837), che scrisse secoli dopo Sir Philip Sidney, ne è un esempio perfetto, anche lui dedicò una poesia alla luna. Durante la sua breve vita, Leopardi soffrì di una salute cagionevole, restando per gran parte della sua esistenza confinato nella casa di famiglia a Recanati.

Eppure, come ha notato Moritz Levi, professore di lingue romanze, nell’articolo Silenzio e solitudine nelle poesie di Leopardi, se Leopardi avesse sofferto di meno, il mondo sarebbe stato probabilmente privato di un grande poeta. Levi scrive che il poeta recanatese «ha cantato innanzitutto le proprie sventure e la propria disperazione, ma dietro le manifestazioni delle sue sofferenze individuali, gli accenti della miseria e del dolore universali risuonano chiari come nel famoso soliloquio di Amleto».

Leopardi si rivolge alla luna come Sidney.

Alla luna

O graziosa luna, io mi rammento
Che, or volge l’anno, sovra questo colle
Io venia pien d’angoscia a rimirarti:
E tu pendevi allor su quella selva
Siccome or fai, che tutta la rischiari.
Ma nebuloso e tremulo dal pianto
Che mi sorgea sul ciglio, alle mie luci
Il tuo volto apparia, che travagliosa
Era mia vita: ed è, né cangia stile,
0 mia diletta luna. E pur mi giova
La ricordanza, e il noverar l’etate
Del mio dolore. Oh come grato occorre
Nel tempo giovanil, quando ancor lungo
La speme e breve ha la memoria il corso,
Il rimembrar delle passate cose,
Ancor che triste, e che l’affanno duri!

Leopardi ripercorre una riflessione fatta su quel colle un anno prima: in un primo momento si sofferma sulla luna notturna, che appare sfocata e deformata a causa del suo pianto; la sofferenza nella sua vita è ancora presente, eppure a questa sofferenza si aggiunge, nella riflessione successiva, una fonte di consolazione. Quando si è giovani e si hanno davanti ancora tanti anni, si ha speranza – speme – e si trova conforto nel ricordare il breve periodo di tristezza passata, anche se questa – l’affanno – dovesse persistere. Il poeta avverte un senso di coerenza nella propria vita nel ritornare allo stesso luogo e allo stesso oggetto della sua contemplazione, così come c’è continuità tra il componimento di Leopardi e quello di Sidney nell’ambito più ampio della storia umana.

Ritratto postumo di Giacomo Leopardi del 1897. Pubblico dominio

Al di là di questo, il poeta non spiega quale sia il motivo del conforto che trova nelle proprie considerazioni. Levi osserva: «I poeti romantici e quelli che cantano la stanchezza della vita e la sua tristezza – i poeti pessimisti – hanno tutti rivolto i loro appelli appassionati alla luna; hanno, sembra, scoperto tra loro e lei una segreta affinità e simpatia».

Forse per questo il poeta custodisce deliberatamente questa confidenza tra sé e la luna, che nella poesia appare al tempo stesso mutamente ricettiva e dolcemente benevola nel riempire di luce il bosco.

Pur parlando della propria sofferenza, nei versi finali Leopardi volge il pensiero all’esperienza universale. Spiega perché tanti solitari sofferenti hanno trovato nella luna un ascoltatore comprensivo. La luna, nella sua luce solitaria sospesa nel buio, sembra partecipare dello stesso stato: c’è una strana consolazione in questa incarnazione visibile del proprio dolore. Allo stesso tempo, la poesia dà conforto ai lettori, come la poesia di Sidney: la luna è stata testimone e compagna di sofferenza in ogni epoca. Lontana dai problemi della Terra, la sua bellezza eterea evoca il pensiero di qualcosa che va oltre noi stessi e che non riusciamo a comprendere.

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