In Italia, la questione dell’applicazione della legge, che in teoria appare giusta e imparziale, purtroppo nella pratica spesso risulta penalizzante per le forze dell’ordine. Il tema è complesso e dibattuto: l’equilibrio tra la difesa dell’ordine pubblico e la sicurezza degli operatori delle forze dell’Ordine, da una parte, e la responsabilità legale di questi ultimi dall’altra, in questo Paese è oggetto di dibattiti da decenni.
IL QUADRO NORMATIVO
L’Articolo 53 del Codice Penale italiano disciplina l’uso legittimo delle armi da parte dei pubblici ufficiali, stabilendo che non siano punibili se l’uso della forza (e quindi anche dell’arma di ordinanza) sia necessario per respingere una violenza, per vincere una resistenza all’autorità o impedire reati gravi come omicidio volontario o rapina a mano armata.
La norma richiede però che l’uso della forza da parte dell’operatore di polizia sia proporzionato e necessario, come chiarito da diverse sentenze che hanno riconosciuto la responsabilità per eccesso colposo.
Inoltre, la Legge 152 del 22 maggio 1975 (Legge Reale) offre una tutela specifica per gli ufficiali e agenti di pubblica sicurezza, polizia giudiziaria e militari in servizio di pubblica sicurezza coinvolti in procedimenti penali per fatti legati all’uso delle armi o di altri mezzi di coazione fisica durante il servizio. La norma consente, su richiesta, la difesa da parte dell’Avvocatura dello Stato o di un libero professionista, con le spese a carico del ministero dell’Interno.
L’APPLICAZIONE PRATICA
Nonostante queste tutele (teoriche, verrebbe da dire) l’applicazione pratica della legge sembra penalizzare le forze dell’ordine, principalmente a causa del processo investigativo che segue ogni intervento da parte degli agenti che implichi un qualche danno per chi non si ferma a un posto di blocco oppure reagisce in modo violento.
Un esempio recente è l’incidente di Atena Lucana, dell’11 aprile, dove un carabiniere si ritrova attualmente indagato per eccesso colposo di legittima difesa e lesioni personali, dopo aver sparato contro un’auto rubata che aveva tentato di investirlo forzando il posto di blocco. Il ferito (grave) è ora fortunatamente fuori pericolo. Ma questo caso è emblematico di come, anche in situazioni di oggettivo ed evidente pericolo, un operatore delle forze dell’Ordine debba “avere paura” sia di chi tenta di fargli del male/ucciderlo (o sia un pericolo per altre persone innocenti) sia del procedimento legale che, come una spada di Damocle, pende sulla sua testa per ogni azione compiuta in servizio. Questo perché gli agenti devono affrontare indagini, potenzialmente lunghe e stressanti, che possono spesso prevedere sospensioni dal servizio, danni alla carriera, trasferimenti e, purtroppo, persino il linciaggio morale. Il processo di verifica dei fatti, benché sia da un lato necessario per garantire la legalità dell’operato delle forze dell’Ordine, nei fatti tende a diventare una penalizzazione automatica in tutti i casi in cui un sospettato si faccia male.
E anche quando tutto va “bene” e il carabiniere, o il poliziotto o la guardia di finanza, vengono scagionati perché si accerta che hanno agito nel rispetto della legge, l’impatto psicologico e professionale è pesante. E spesso il sensazionalismo mediatico amplifica questo fenomeno provocando una sorta di effetto “dissuasivo”: la concreta possibilità di finire nel tritacarne, può senz’altro scoraggiare gli agenti dall’usare la forza benché necessario, mettendo a rischio sia la propria sicurezza che quella dei cittadini, come sottolineato dal ministro della Difesa Guido Crosetto su X il 13 aprile 2025, dove ha chiesto una norma per evitare procedimenti automatici.
COSA DICONO I SINDACATI
Non sorprende quindi, che i sindacati delle forze dell’ordine, come il Silp Cgil della Polizia, abbiano espresso preoccupazioni sui rischi giuridici, evidenziando che gli agenti affrontano responsabilità penali per reati propri dei pubblici ufficiali, reati comuni con aggravanti o violazioni di doveri istituzionali. Il Nuovo Sindacato di Polizia sottolinea che, nonostante le tutele legali, il dispositivo di difesa (come il patrocinio dell’Avvocatura dello Stato) non sempre mitiga l’impatto dei procedimenti, specialmente per i costi emotivi e professionali.
L’Unione Sindacale Italiana Finanzieri (Usif), in una nota del 14 aprile 2025, ha accolto con favore le parole di Crosetto, sottolineando che da mesi conduce una campagna mediatica per sensibilizzare sull’urgenza di rivedere la normativa, a conferma del fatto che esiste una percezione diffusa che il sistema legale attuale non tuteli adeguatamente gli operatori di pubblica sicurezza, esponendoli a procedimenti penali automatici. In Italia esiste, infatti, una strana forma di “presunzione di responsabilità” nei loro confronti: anche se la legge è imparziale, e al di là della presunzione di innocenza (che ovviamente dovrebbe valere anche per chi garantisce l’ordine pubblico) esiste nei fatti una tendenza a indagare automaticamente gli agenti – e con effetti ben più gravi di quelli di un mero “atto dovuto” – creando un’ingiusta aura di presunzione di colpevolezza e di sfiducia nei loro confronti.
Certo, i casi in cui i rappresentanti delle forze dell’Ordine hanno violato la legge, anche in modo grave, ci sono stati. E inevitabilmente ci saranno sempre. E naturalmente è giusto che siano puniti. Ma non si può criminalizzare un’intera categoria per gli sbagli di pochi. E questo vale per tutti i cittadini e tutte le categorie. Carabinieri, poliziotti e finanzieri inclusi.