Sebbene tra le fitte schiere degli oppositori di Trump negli Stati Uniti persista una forte riluttanza a riconoscerlo, le iniziative dei dazi intraprese dal presidente hanno prodotto un successo sorprendente senza causare traumi. Sono circa novanta i Paesi che oggi si stanno rivolgendo a Washington per negoziare una riduzione dei dazi provvisori, cercando di ingraziarsi gli Stati Uniti con concessioni rispetto allo status quo. Naturalmente i dettagli devono ancora essere definiti, ma il costo sostenuto finora è stato minimo, mentre la conseguente riduzione di un insostenibile disavanzo commerciale americano — superiore ai mille miliardi di dollari — si preannuncia rilevante.
Sorprende che proprio la Cina, che per decenni ha manipolato il sistema commerciale internazionale con paziente strategia, abbia raccolto la sfida, accettando un confronto diretto che non può vincere. Gli Stati Uniti vantano risorse naturali abbondanti, mentre Pechino dipende fortemente dall’importazione di materie prime ed energia.
Eppure, fino all’insediamento di Trump otto anni fa, era quasi impossibile girare il mondo senza sentirsi ripetere che l’economia cinese avrebbe presto superato quella americana. Oggi, l’economia di Pechino non arriva a due terzi di quella statunitense. E poiché nulla di ciò che il Pcc pubblica sulla propria economia, né i dati ufficiali che diffonde, risultano credibili — ed è noto che il Paese è gravato da profondi problemi di debito pubblico e immobiliare — la Cina si trova in realtà molto più esposta degli Stati Uniti in un serio scontro economico.
Il commercio estero rappresenta per la Cina una percentuale del Pil quasi doppia rispetto a quella americana, rendendo Pechino ulteriormente vulnerabile in questa contesa. Nella corsa dei Paesi a stabilizzare le relazioni commerciali con gli Stati Uniti, l’unica economia significativa che ha risposto positivamente ai tentativi — alquanto disperati — della Cina di radunare una sorta di blocco rivale è stata la Spagna. Ma la Spagna non sta certo vivendo un momento felice: è solo la quarta economia dell’Unione Europea ed è ancora governata dai socialdemocratici, che confidano nella spesa pubblica per sostenere la crescita. Il primo ministro Pedro Sánchez si è recato a Pechino per la terza volta in due anni e continua a perorare una maggiore cooperazione economica tra Europa e Cina, ma inutilmente.
Come in molti altri ambiti, Trump è partito dal presupposto che quasi ogni politica statunitense consolidata meriti una revisione, considerandola spesso superata. Dopo l’era Reagan, l’establishment di Washington si è trasformato in un consenso autoreferenziale, con il potere che, in un contesto a trazione democratica, è passato gradualmente dagli eletti ai funzionari permanenti, rendendo i repubblicani una sorta di riflesso sbiadito dei democratici.
Sul fronte ambientale, Trump ha dichiarato senza mezzi termini che «il cambiamento climatico è una bufala», una posizione che, in sostanza, regge. Ha inoltre sostenuto che gli accordi di libero scambio vigenti fossero un’estensione della politica della Guerra fredda, concepita per incentivare molti Paesi a sottrarsi all’influenza sovietica consentendo loro di esportare negli Stati Uniti. L’idea era che la forza dell’economia americana avrebbe poi attratto buona parte di quegli investimenti esteri, senza il rischio di una presenza straniera eccessiva in un mercato talmente vasto da poterla assorbire senza danni.
Trump ha concluso che i dazi potevano ridurre il disavanzo commerciale e riportare negli Stati Uniti settori industriali persi, contando sul fatto che le nazioni estere avrebbero fatto di tutto per non perdere l’accesso al mercato americano, di gran lunga il più importante al mondo. Secondo lui, l’eventuale aumento dei prezzi interni sarebbe stato un rincaro una tantum, senza effetti duraturi sugli indicatori chiave dell’inflazione, dato che i dazi non avrebbero riguardato i beni essenziali.
Ben pochi generi alimentari di prima necessità, nessuna voce legata all’edilizia abitativa e poche materie prime tali da incidere sull’indice dei prezzi al consumo sarebbero stati soggetti ai dazi. E poiché i maggiori introiti doganali sarebbero serviti a finanziare tagli alle imposte su redditi personali e societari, il bilancio complessivo sarebbe stato positivo. I dazi, insomma, sarebbero diventati una tassa facoltativa, applicata su beni d’importazione di cui quasi nessuno avrebbe avuto davvero bisogno. In questo senso, i dazi assomigliano alle imposte sui consumi o all’Iva: colpiscono spese non obbligatorie e sono quindi meno gravosi per i contribuenti, oltre che più facili e meno costosi da riscuotere.
Negli ultimi giorni, nel tumulto degli eventi, i critici mediatici di Trump — sconfitti e messi all’angolo dalla sua lunga serie di successi elettorali — sono tornati alla carica. C’è chi ha sostenuto, come sempre senza uno straccio di prova, che si trattasse di una manovra di Borsa per far guadagnare rapidamente il presidente e i suoi amici. Qualcun altro ha parlato di guerra commerciale a tutto campo, accusando Trump di voler chiudere ogni trattativa internazionale e trasformare gli Stati Uniti in un’economia autosufficiente.
Ma l’apertura simultanea di negoziati con decine di Paesi ha smontato rapidamente quest’ultima accusa. Stessa sorte è toccata alle insinuazioni sulla presunta instabilità mentale del presidente, dipinto come un giocatore compulsivo, incapace di resistere al rischio e all’ebbrezza della scommessa. Una teoria assurda, smentita tanto dalla sua esperienza presidenziale quanto dall’infondata accusa di collusione con Mosca di sette anni fa, mai dimostrata nonostante i proclami di prove dirette.
L’unico passo falso è stato il trattamento riservato al Canada, disapprovato dall’opinione pubblica americana. Escludendo il petrolio acquistato a prezzi stracciati e rivenduto con profitto, gli Stati Uniti non hanno un deficit commerciale con Ottawa. Paragonare il Canada, alleato affidabile e partner commerciale equo, al Messico è stato un errore clamoroso.
Il Canada ha motivo di lamentarsi per l’ondata di migranti irregolari che, entrati negli Usa, si dirigono a nord portando con sé armi illegali. In parte, la retorica di Trump – che ha ipotizzato un’annessione del Canada agli Stati Uniti – è stata alimentata dalle dichiarazioni del primo ministro Justin Trudeau, che ha ammesso che l’economia canadese collasserebbe sotto dazi del 25% e ha tardato a promettere un aumento delle spese per la difesa. Ciò che si profila con i dazi, a non più di un paio di mesi di distanza, è un’ennesima conferma dell’approccio innovativo di Trump, destinato a ridisegnare le dinamiche economiche internazionali a favore degli Stati Uniti.
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