Omeopatia e scienza, intervista al dottor Gino Santini

21 Marzo 2025 11:18 Aggiornato: 25 Marzo 2025 7:49

L’omeopatia è una disciplina medica che affianca la medicina convenzionale con un approccio personalizzato, mirando a stimolare i meccanismi di autoguarigione dell’organismo. Spesso fraintesa e sottovalutata, l’omeopatia non si contrappone alla medicina tradizionale, ma ne rappresenta una possibile estensione. Entrambe le metodologie hanno un proprio campo di applicazione e il vero valore del professionista sta nel saper riconoscere quando avvalersi dell’una o dell’altra. Questo equilibrio tra approcci apparentemente opposti è alla base della medicina integrata, una visione che combina differenti strategie terapeutiche per offrire ai pazienti cure più complete e sicure.

Su questo intervistiamo il dottor Gino Santini, medico e pubblicista, direttore scientifico dell’Ismo (Istituto di Studi di Medicina Omeopatica di Roma. Già docente a contratto di Medicina Integrata presso l’Università degli Studi di Siena e presso l’Università degli Studi di Chieti-Pescara, e segretario nazionale Siomi (Società Italiana di Omeopatia e Medicina Integrata).

Quali sono i principi base dell’omeopatia e in cosa differiscono dall’approccio della medicina convenzionale? 

È una domanda molto complessa.  L’omeopatia ha tre caposaldi che sono: l’utilizzo di sostanze diluite e dinamizzate, la legge di similitudine e la terapia individualizzata. Cosa vogliono dire questi tre elementi? La legge di similitudine è alla base dell’approccio omeopatico perché Hahnemann, cioè l’inventore, il teorico dell’approccio omeopatico, viveva in un’epoca dove non si curava con i farmaci, ma c’era una medicina completamente fuori dal mondo. Quindi era una medicina che si definiva “umoralistica”. Si cercava, cioè, di eliminare la materia peccans, considerata la patologia, con salassi, facendo sudare il paziente, con clisteri, etc. Insomma, era una strategia terapeutica che procurava la morte del paziente più che risolvergli i problemi. Hahnemann è stato il primo a dire: “Per curare bisogna somministrare un medicinale, una sostanza”. E infatti non è secondario il fatto che la parola “farmaco” voglia dire “veleno”. Hahnemann si era reso conto che le sostanze sono dei veleni per l’organismo, e tutto dipende dalla concentrazione a cui noi le somministriamo.

Lui comincia a sperimentare queste sostanze sull’uomo sano, e vede che c’è una corrispondenza fra i peggioramenti che queste sostanze causano sulla persona sana, e i miglioramenti che queste stesse sostanze apportano a persone malate che già presentano sintomi simili. Ci sarebbe da spiegare moltissimo, perché è stato fatto un lavoro enorme, con tantissime sostanze.

Hahnemann all’inizio ne isola un centinaio… Lui in realtà era un chimico più che un medico. E ha dato un aspetto nuovo alla chimica. Ha incontrato Lavoisier [considerato il padre della chimica moderna, ndr] e molti altri chimici del tempo. Hahnemann è l’inventore del mercurio solubile, che per tanto tempo è stato usato nei termometri. Quindi il suo è un cambiamento innovativo dirompente per l’epoca. Hahnemann ha diluito e dinamizzato, cioè: lui agitava queste sostanze, e scopriva che più si diluivano e più si dinamizzavano, più queste sostanze erano potenti.

Tant’è che poi una delle grosse critiche che si fanno oggi all’omeopatia è appunto che si diluisce troppo: “non c’è più niente, si somministra acqua fresca”… Critica che oggi fortunatamente è stata smentita da ricerche molto mirate. Terzo aspetto, che forse ci complica un po’ la vita, è l’individualizzazione: ognuno ha il suo farmaco, o il suo insieme di farmaci, e questo è un altro elemento dirompente se si considera che la medicina di oggi utilizza un farmaco solamente per una patologia, mentre invece qui abbiamo uno stesso medicinale che può essere usato per problemi diversi in pazienti diversi.

 

Qui arriviamo al cuore della scienza omeopatica. Ovvero: l’omeopatia è personalizzata, per cui due persone con lo stesso disturbo possono ricevere trattamenti diversi.

Esatto. E questo io lo trovo un fatto estremamente utile, perché l’omeopatia, a differenza della medicina convenzionale non vuole sostituirsi all’organismo. Cioè se ho una funzione biologica non più attiva, io devo ricorrere a un medicinale convenzionale per svolgere quella stessa funzione. In questo caso il farmaco va a sostituirsi all’organismo e prende il comando di quell’area biologica. In omeopatia, invece, il discorso è diverso: si cerca di far ripartire un qualcosa che nel paziente, in quel preciso momento, risulta essere funzionante molto al di sotto delle sue capacità. È proprio questo il motivo per cui posso avere cause diverse che possono avermi creato il problema, ma avere uno stesso medicinale che mi risolve problemi diversi in pazienti diversi.

Indirettamente si esalta l’importanza della costituzione, ovvero l’importanza dell’individualità e del biotipo. Naturalmente, non possiamo avere un medicinale per ogni paziente, questo è chiaro, spesso infatti si riuniscono i pazienti in gruppi che siano costituzionalmente simili e si trovano delle aree dove racchiudere i medicinali omeopatici. Questa è una strada che gli omeopati usano spesso per semplificarsi un po’ la vita.

Per spiegare brevemente la differenza di approccio tra la medicina convenzionale e l’omeopatia, possiamo dire che la prima mira a eliminare il sintomo, mentre la seconda lavora su un principio più globale, o olistico?

È più corretto dire che entrambe utilizzano i sintomi, ma con finalità diverse. I sintomi sono come delle “spie”: ci segnalano che nell’organismo c’è qualcosa che non va, servono per arrivare alla diagnosi, cioè per dare quantomeno un’etichetta a quel paziente. La medicina convenzionale si appoggia su una diagnosi, che può essere di organo o di sistema e cerca di gestire quell’elemento in modo sostitutivo: c’è un qualcosa che non mi funziona, arriva una molecola che fa lo stesso lavoro, quindi si sostituisce, e mi risolve il problema.

Noi invece, in omeopatia, con i sintomi ci creiamo una specie di mappa costituzionale. Non ci limitiamo ai sintomi che ci riferisce il paziente sul suo problema specifico, ma cominciamo a cercare anche altre sintomatologie, tenendo conto che ogni problema nell’organismo si riflette su tante altre parti. Cerchiamo una conferma di un problema anche in altri settori. Ad esempio, se da me viene un paziente che ha un problema di ipertensione, controlliamo anche l’apparato digerente, il sistema nervoso, controlliamo anche la componente immunitaria… Cerchiamo, cioè, di capire come la malattia può e anzi deve diventare un fatto biologico personale.

Se pensiamo che l’omeopatia è nata per gestire patologie croniche, cioè patologie che convivono col paziente per tantissimo tempo, la cosa si fa ancora più interessante. Diventa importantissimo conoscere la costituzione del paziente. La medicina convenzionale, invece, nasce e si origina per gestire fatti acuti, e lo fa sicuramente molto bene. Anche l’omeopatia, a suo modo, potrebbe gestire qualche fatto acuto, ma lo fa con molta difficoltà. Il fatto acuto, per usare una metafora, è una “guerra”, devo chiuderlo nel minor tempo possibile. Il cronico invece è diverso, perché convivendo col paziente gli ha creato una qualità di vita davvero molto bassa. Ed è nostro compito cercare di migliorarla.  Ma alla medicina convenzionale, la qualità della vita interessa relativamente poco. In genere per loro contano più i risultati di parametri che si modificano; se poi questi risultati vengono pagati parecchio dal paziente spesso si limitano a dire: ”Questa è la strada, e questo devi fare!”.

 

Prevenzione e qualità della vita sono strettamente connesse. Qual è la differenza tra prevenzione omeopatica e prevenzione medica classica (vaccini, farmaci, screening)?

La prevenzione si svolge attraverso diversi stadi: quella più importante, più bella e più difficile da ottenere è la prevenzione primaria, cioè io intervengo prima che il problema si sviluppi e questo è veramente difficile. La medicina convenzionale utilizza gli screening, utilizza tecniche vaccinali, utilizza tante armi, ma in realtà non ha una conoscenza predittiva del problema del paziente: più propriamente viene effettuata una prevenzione secondaria, ovvero una gestione della patologia quando è ancora nelle fasi iniziali.

Invece, in omeopatia, almeno quella che si basa sul modello costituzionale, ricerchiamo la conoscenza delle costituzioni, che ci permette di capire quali potrebbero essere i punti deboli che in un certo paziente mi possono sviluppare una patologia e quindi andare a rinforzarli. Se io so che il sulfurico [una delle tre costituzioni principali, ndr] è un paziente predisposto per problemi cardiovascolari, una crisi ipertensiva mi sta segnalando che questo paziente potrebbe diventare iperteso. Tuttavia, la stessa crisi ipertensiva in un altro tipo di paziente, potrebbe essere un episodio isolato, legato a certe cause, ma che non mi fa pensare a un’evoluzione successiva su quella strada. Di conseguenza, conoscere il paziente ci permette di fare un’ottima prevenzione primaria.

 

Quindi non si può dire che ci sono pazienti per cui l’omeopatia funziona meglio o peggio, ma ci sono persone che vanno inquadrate nel loro biotipo, è corretto?

Esattamente, meglio io conosco il paziente e più vedo in che direzione sta procedendo. Spesso scherzando con i pazienti dico: “Io sono un drone che sale sul paziente e cerca di capire che strada sta percorrendo”.

 

Ci sono delle patologie per cui l’omeopatia è più efficace?

Sì, per esempio, abbiamo raggiunto una buona conoscenza delle problematiche allergiche o genericamente connesse al sistema immunitario. Abbiamo un buon successo sui disturbi da menopausa e su qualche patologia autoimmune su base tiroidea. Abbiamo diversi riscontri in problematiche di ipertensione. L’importante, in tutti questi campi, è sempre cercare di agire al più presto. Mi spiego meglio: poiché l’omeopatia agisce riattivando o riequilibrando dei meccanismi di difesa del paziente, io devo agire prima che questi meccanismi siano esauriti. Altrimenti, devo per forza ricorrere a farmaci convenzionali. Questo è un concetto alla base della medicina integrata.

L’omeopatia oggi, fortunatamente, non viaggia più da sola, ma all’interno di un contesto, di un framework, dove rappresenta un elemento della medicina unica, della medicina che considera diversi elementi del paziente. La difficoltà è capire quando possiamo usare l’omeopatia o un’altra disciplina complementare e quando usare la medicina convenzionale. O addirittura usarle entrambe, perché vediamo che, in quel caso, forse possiamo migliorare l’adattamento del paziente ed eliminare gli effetti collaterali della terapia convenzionale.

 

Parlando di medicina integrata, ci sono casi in cui l’omeopatia non è indicata o può causare effetti collaterali o interazioni con altri farmaci convenzionali?

L’effetto collaterale classico, omeopaticamente parlando, non c’è perché abbiamo veramente una quantità di materia molto bassa. Esiste, invece, una reazione eccessiva da parte del paziente, quello che si chiama aggravamento omeopatico: se sto riequilibrando un paziente in maniera eccessiva, quel paziente può avere un peggioramento anziché un miglioramento. È un segnale che ci indica che stiamo usando il medicinale giusto, ma a una potenza eccessiva, sbagliata, e che quindi bisogna ritarare la terapia. Effetti collaterali classici in omeopatia tenderei a escluderli.  In passato ci sono state delle pubblicazioni che accusavano i farmaci omeopatici di avere un effetto letale, di essere capaci di avvelenare, ma sono tutte persone che purtroppo non hanno competenza su questo contesto e parlano di fenomeni che non conoscono.

 

I farmaci omeopatici seguono gli stessi standard di controllo e certificazione dei farmaci convenzionali?

Assolutamente sì, questo avviene dal 1995, da quando le normative per le aziende convenzionali sono state applicate anche alle aziende omeopatiche. Da quel momento i Nas possono andare a controllare anche tutte le linee di produzione del farmaco omeopatico, o meglio del medicinale omeopatico, e questo è un grosso vantaggio perché prima i medicinali venivano fatti dovunque e comunque e con tecniche di produzione a volte veramente casuali e approssimative. Adesso le aziende devono seguire una farmacopea, le aziende devono seguire le buone norme di produzione farmaceutica e sono suscettibili di controlli. Questo vale per le aziende che fanno omeopatici e anche per quelle che producono integratori. Quindi il paziente, da questo punto di vista, ora è molto più cautelato rispetto a prima.

 

Eppure in Italia c’è ancora molto scetticismo. Perché? Anche a livello internazionale l’omeopatia è vista con lo stesso occhio critico?

È un discorso a macchia di leopardo. In Italia, di recente, parliamo proprio di due settimane fa, è stato pubblicato un sondaggio dove la percezione positiva dell’approccio omeopatico è in aumento. Questo un po’ lo sapevamo, sia dai nostri pazienti sia tramite le società scientifiche del settore che hanno il polso della situazione, che seguono i sondaggi.

Io sono il segretario della Società Italiana di Omeopatia e Medicina Integrata (Siomi) e faccio parte anche degli omeopati europei, mi occupo della parte didattica dell’European Committee for Homeopathy (Ech). In Europa si va da nazioni come Spagna, Francia o l’Inghilterra, dove c’è una buona accettazione a delle nazioni dell’Est dove addirittura l’omeopatia è vietata: se si prescrivono [medicinali omeopatici, ndr] praticamente si commette un reato. Sono fortunatamente casi limite, è vero, però sono diffusi in maniera molto irregolare, almeno nella parte europea. Negli Stati Uniti e oltreoceano siamo messi ancora peggio.

In generale, possiamo dire che si comincia a fare un discorso di medicina integrata e questo viene accettato molto meglio rispetto a prima quando l’omeopatia era considerata un estremo. In passato, infatti, c’erano dei colleghi che curavano solo omeopaticamente e questo era un problema perché a volte servono i farmaci convenzionali. Ricordiamo, per esempio, il dramma del bambino di Cagli che era stato curato solo omeopaticamente ed è morto per un’otite. In quel caso, però, il collega ha condotto un approfondimento costantemente, pertinacemente omeopatico, quando in realtà non c’era più motivo di farlo. Si doveva interagire in maniera diversa. Questo episodio crea e ha creato molti problemi, ma fortunatamente oggi questi discorsi di estremizzazione si fanno sempre più rari. È giusto che i pazienti chiedano se il proprio medico, nel caso in cui servisse, usi farmaci convenzionali. Al primo posto ci deve essere la sicurezza del paziente, poi viene tutto il resto.

 

È vero che l’omeopatia può essere utile anche nei casi in cui la medicina tradizionale non ha soluzioni soddisfacenti? Quali sono alcuni esempi?

Nelle patologie croniche. La medicina convenzionale utilizza per le cronicità la stessa strategia che utilizza per i fatti acuti cambiando solamente i dosaggi. Cerca cioè di migliorare la sintomatologia ma non risolve il problema. Invece, quando si ricorre a una disciplina complementare e allargo il discorso anche alla fitoterapia, all’agopuntura o all’uso degli oligoelementi, si adotta una strategia più completa, basata su un insieme di informazioni più ampio. Per questo, la prima visita omeopatica dura circa un’ora se non di più, poiché si cerca di raccogliere il maggior numero di informazioni, e ciò consente di ottenere un notevole miglioramento della qualità di vita del paziente. In passato si guardava solamente il parametro oggettivo, ad esempio i valori nel sangue o le situazioni cliniche. Oggi, invece, si guarda finalmente anche alla qualità di vita del paziente e non è una cosa da poco.

Voglio ricordare Pitigliano o anche altre zone della Toscana, vicino Grosseto per esempio, dove abbiamo delle strutture pubbliche che adesso riescono a gestire molto bene, anche omeopaticamente, patologie come il diabete, la fibromialgia, la riabilitazione da malattie infiammatorie, insomma, esistono diversi esempi in questo senso regolarmente pubblicati su riviste scientifiche. Non sto parlando per sentito dire, stiamo parlando proprio di dati acclarati.

 

Eppure, nonostante i numerosi studi pubblicati molti medici considerano l’omeopatia solo un effetto placebo. Perché secondo lei?

Non la conoscono. Un esempio di garattiniana memoria è la famosa “acqua fresca”, uno slogan che viene ripetuto a pappagallo da persone che non hanno una conoscenza della materia. Io parlo di una conoscenza basata su pubblicazioni scientifiche, non di una conoscenza del “sentito dire”. Quello che noi diciamo e conosciamo, in qualità di società scientifica, lo diffondiamo sulla base dei lavori e delle pubblicazioni scientifiche sull’argomento. Se la gente non conosce queste pubblicazioni continuerà a ripetere quello che ha captato in maniera molto superficiale, approssimativa e non si farà mai un’idea. Tenga conto che per entrare in un approccio omeopatico bisogna ricominciare a studiare. Molti colleghi, una volta usciti dall’università e dalla specializzazione, cominciano a lavorare e non gli va di approfondire o di dedicarsi ad altro. Noi dobbiamo mantenere un aggiornamento sia sul lato convenzionale che su quello complementare, nel mio caso omeopatico, ma anche fitoterapico e in altri contesti. I colleghi spesso non hanno tutta questa voglia di rimettersi in gioco.

 

Le persone si dividono tra chi l’apprezza e chi la considera superstizione. Perché secondo lei l’omeopatia è così polarizzante?

Un elemento che ci trasciniamo da tanto tempo e che mi piacerebbe sparisse è la seguente affermazione: “Io seguo l’omeopatia perché ci credo”. Credere è una cosa che va riservata a un atto di fede, a una religione. Noi qui stiamo parlando di una scienza medica. È vero che la medicina non è una “scienza” nel senso classico, perché non è una scienza esatta. Noi abbiamo a che fare con gli organismi umani, che sono estremamente complessi. Però i medicinali funzionano, cioè hanno una risposta che risulta essere oggettiva, e deve essere oggettiva. Quando io vedo un miglioramento in un paziente cerco questo miglioramento anche da altri settori per avere la conferma che non si tratti di un caso, ma che si sia proprio legato a quello che noi facciamo. Molto spesso noi inseriamo delle pause nella terapia per vedere se in effetti la situazione è realmente stabile o è solamente un’apparenza. Quindi la procedura, la strategia che usiamo è molto complessa, perché è complesso l’organismo che stiamo cercando di gestire.

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