L’idea del Fanciullino, Shakespeare la sviluppò prima di Pascoli

Di Alessandro Starnoni

Il 2016 è un anno importante nel contesto della letteratura europea ma non solo, dal momento che ricorre il 400esimo anniversario dalla morte del più grande drammaturgo e poeta inglese di tutti i tempi, William Shakespeare.

La penna del Bardo dell’Avon conquista da sempre numerosi studiosi di fama internazionale, e questo è vero soprattutto quando si parla dei suoi drammi. In effetti, per quanto minore sia stato il contributo artistico di Shakespeare attraverso la poesia, si ha come l’impressione che i suoi Sonetti siano inquadrati dalla critica come una produzione di seconda classe, rispetto alle sue tragedie.

Eppure è possibile che nei Sonetti si nasconda quella stessa genialità che accompagna le tragedie shakespeariane. In realtà, la critica ha cercato di dare risalto anche a questa parte delle creazioni shakespeariane, interpretando i Sonetti di Shakespeare come una ‘modernizzazione’ della lirica stilnovista, dove al posto della donna angelicata c’è l’uomo angelicato, ovvero il principale tema dei versi del Bardo: l’amore cantato, il Fair Youth, o ‘bel giovane’.

Questa interpretazione del Fair Youth implica inevitabilmente un altro aspetto: l’omosessualità in Shakespeare. Eppure esistono degli indizi piuttosto importanti perchè restino sottovalutati, che andrebbero a scardinare questa ipotesi, e che porterebbero ad affermare un’altra verità sui Sonetti: Shakespeare non si è innamorato di un’altra persona, ma di sé stesso.

IL TEMA DELLA VANITÀ

La tanto discussa identità del Fair Youth quindi, coinciderebbe con quella dello stesso poeta e non con quella di altri giovani uomini, come ha ipotizzato la critica. Nei suoi versi Shakespeare non farebbe altro che lodare il suo io giovanile, lo Shakespeare ragazzo, il suo ‘fanciullino’. È vero che il Fair Youth, su un livello astratto è già interpretabile come la bellezza o la giovinezza, ma quella che è sempre stata oggetto di dibattito è l’interpretazione legata alla personificazione che lo stesso Shakespeare attua sul Fair Youth. Cioè, il Bardo si rivolge al Fair Youth come se stesse parlando a qualcuno, a una persona realmente esistente. Potremmo dire quindi che il Fair Youth è la giovinezza sì, ma questa idea di ‘Youth’ è poi personificata nel suo sé giovanile.

Uno dei punti chiave è il sonetto 62, dove Shakespeare ammette che il suo peccato più grande è la vanità, qualcosa di cui non riesce a liberarsi, un’ossessione radicata nel profondo del suo cuore. Ma c’è qualcosa che interferisce, nello stesso sonetto, con l’adulazione del sé che il poeta vorrebbe portare avanti; Shakespeare se ne accorge guardandosi allo specchio: «But when my glass shows me myself indeed, Beated and chopp’d with tann’d antiquity». È la vecchiaia che avanza nel suo volto.

Perché è tanto importante il tema della vanità, in Shakespeare? Perché concentra l’attenzione del poeta solamente su sé stesso. Ecco perché vedere in quella frase di svolta del sonetto, «Tis thee, myself, that for myself I praise» (Sei tu, me stesso, che elogio in vece mia), un aprirsi verso l’altro, come sostenuto dalla critica ufficiale, sarebbe una vera e propria contraddizione, nonché una forzatura.

Alessandro Serpieri, che ha portato avanti la stesura di una delle principali critiche dei Sonetti di Shakespeare, scrive che il peccato di vanità è per Shakespeare solo un «abbaglio», uno sbaglio temporaneo quindi, dopodiché il poeta riesce a volgere come se niente fosse lo sguardo ‘all’altro’.

Ma come può, l’ossessione per la vanità, dallo stesso Shakespeare definita «irrimediabile», e sempre «radicata nel profondo del suo cuore», che conquista «ogni suo senso», essere qualcosa di così passeggero, tanto da estinguersi completamente addirittura nei versi finali dello stesso sonetto?

È in effetti più probabile che l’ego del poeta non riesca a rinunciare all’amore per sé stesso, almeno non istantaneamente, che non si arrenda così facilmente ai segnali della vecchiaia e che voglia cercare quindi una soluzione immediata al colpo subito dallo specchio, che gli permetta di continuare ad adulare sé stesso, di continuare ad assecondare la sua ossessione narcisistica. E questa soluzione è la creazione del Fair Youth: un ricordo corporeo, un’immagine per lui realmente esistente, il suo sé fanciullino. Con questo stratagemma il poeta-narciso può permettersi di continuare ad auto-compiacersi, dando però a sé stesso e agli altri l’illusione di star elogiando qualcun altro. Per l’abbandono di questa ossessione, che comunque avverrà, sarà necessario più tempo, attraverso un processo di metabolizzazione.

In passato Frank Harris aveva ipotizzato e cercato di dimostrare che, tramite i personaggi dei suoi drammi, Shakespeare volesse rappresentare sé stesso, o rivelare tratti della propria personalità. Frank Harris si è limitato però alle tragedie, non ha azzardato questa ipotesi anche per il Fair Youth di Shakespeare nei Sonetti. Per farlo avrebbe dovuto considerare gli stessi Sonetti come una tragedia ispirata alla vita del Bardo, completa di un inizio e una fine, e considerare il Fair Youth, l’io cosciente del Poeta e la Dark Lady come i personaggi in gioco.

LA BELLEZZA PLATONICA

La vanità focalizza l’attenzione del poeta su sé stesso, ma anche su un altro punto chiave, la bellezza. Ma la bellezza che ammira il soggetto vanitoso è solo la bellezza materiale, o sensibile, come la chiamava Platone, personaggio che ha lasciato una grande influenza sul Bardo e su tutta l’epoca elisabettiana.

Shakespeare è succube del fascino della bellezza sensibile, quella sua e della Dark Lady, che rappresenta nientemeno che la lussuria. Eppure, Platone ci ha insegnato che oltre la bellezza sensibile, esiste anche la bellezza in sé, quella pura che guida, attraverso l’eros, alla ricerca del bene.

Shakespeare sembra realizzare tutto questo, soprattutto che bellezza e virtù, bellezza e verità, bellezza e concetto di bene, come insegna il termine greco kalòs kài agathòs, sono due facce della stessa medaglia. Sono concetti che non possono andar separati, per questo li unisce insieme nel sonetto 105: «Fair, kind, and true». Il poeta capisce che il suo Fair Youth è così bello, proprio perché puro.

Il suo desiderio è di ritornare a quella condizione originale, e alla fine si rivelerà più intenso di quello passionale; «Therefore desire of perfect’st love being made, Shall neigh–no dull flesh–in his fiery race», scrive il poeta nel sonetto 51, che colloca il desiderio d’amore perfetto davanti a quello carnale.

Shakespeare si rende conto che, per riuscire nel suo intento, deve abbandonare tutto ciò che riguarda la bellezza sensibile e i benefici materiali, perché sono questi che lo hanno fatto invecchiare e separare dal suo Fair Youth. Ma questo potrà avvenire solo attraverso un processo di sofferenza, che traspare appieno, ad esempio, nei sonetti 143, 144 e 133. Un processo che guiderà il poeta alla vera bellezza, lo riavvicinerà alla sua anima e quindi al suo Fair Youth, l’unico essere in grado di custodirla. In questo senso, le misteriose iniziali ‘W.H’ presenti sulla famosa dedica dell’editore assumerebbero un significato più preciso: William’s Heart. Proprio l’anima, il cuore di William, è l’unico destinatario dei sonetti, «The Onlie Begetter».

Se in un primo momento quindi, la creazione del Fair Youth ha la funzione di compiacere la vanità del poeta, in un secondo momento la bellezza emanata dal Fair Youth, quell’eros platonico, sveglia Shakespeare al vero significato del bello e lo conduce alla verità. Il Fair Youth di Shakespeare assume quindi lo stesso ruolo del fanciullino di Pascoli, che nel crearlo sempre da Platone era stato ispirato: per entrambi una musa ispiratrice per la loro lirica e, per entrambi, una guida alla comprensione del sé, del mondo e dell’universo.

 
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