L’eccesso di carboidrati danneggia il cervello

di Redazione ETI/Zena le Roux
11 Aprile 2025 17:19 Aggiornato: 11 Aprile 2025 17:19

Il cervello umano può essere paragonato a una città complessa e dinamica, che richiede un flusso costante di energia per funzionare correttamente. Un’interruzione momentanea può essere gestita dai sistemi di emergenza senza conseguenze. Tuttavia, un blackout prolungato porterebbe al cedimento dei generatori, alla rottura dei sistemi idrici, al degrado degli edifici e al collasso delle infrastrutture. Anche se l’energia tornasse, i danni sarebbero ormai irreversibili.

Attraverso questa metafora, la dottoressa Lilianne Mujica-Parodi, autrice principale di uno studio sull’invecchiamento cerebrale pubblicato a marzo, sottolinea l’importanza di intervenire prima che i danni diventino permanenti. La ricerca mostra che il processo di invecchiamento segue una traiettoria definita, con un primo cambiamento rilevante che coincide con l’inizio dell’età adulta e un progressivo aumento della resistenza all’insulina.

Come nel caso di una città incapace di riprendersi se i soccorsi arrivano troppo tardi, anche il cervello può raggiungere un punto in cui le strategie correttive perdono efficacia. Agire tempestivamente diventa quindi una scelta cruciale.

IL CERVELLO CHE INVECCHIA

Fino all’età di circa 45 anni, la struttura cerebrale rimane relativamente stabile. Successivamente, iniziano a manifestarsi cambiamenti degenerativi che si accentuano attorno ai 65 anni. Tra i principali fattori di questa evoluzione vi è il calo del metabolismo del glucosio: il cervello diventa meno efficiente nell’utilizzare i carboidrati come fonte di energia, con ripercussioni sulle sue funzionalità.

Questi segnali metabolici compaiono molto prima dei sintomi evidenti, ma spesso restano inosservati fino a stadi avanzati, quando le possibilità d’intervento risultano limitate. Tecnologie come la risonanza magnetica funzionale e l’elettroencefalogramma permettono tuttavia di individuare precocemente le anomalie, aprendo alla possibilità di un’azione preventiva.

Nel trattamento delle malattie neurodegenerative, è fondamentale comprendere i meccanismi alla base del deterioramento. La malattia di Alzheimer, ad esempio, è stata storicamente associata all’accumulo di beta-amiloide e di proteine tau. Tuttavia, i farmaci mirati a eliminarle si sono rivelati poco efficaci, poiché al momento della diagnosi i danni neuronali sono spesso già irreversibili. Questo accumulo, secondo gli studi, sarebbe una conseguenza della resistenza all’insulina a livello cerebrale. Intervenire solo sugli effetti, senza affrontarne la causa, risulta dunque inefficace.

I neuroni adulti presentano una rigenerazione molto limitata. Se il declino cognitivo è il risultato di cellule cerebrali che non ricevono l’energia necessaria, ogni tentativo di recupero dopo il loro deterioramento appare vano. Il corpo cerca costantemente di mantenere un equilibrio tra energia disponibile e necessaria. Quando questo equilibrio si rompe, lo stress che ne deriva può aggravare ulteriormente il processo degenerativo. In presenza di complicazioni come lo stress metabolico e la disregolazione del glucosio, risolvere la causa iniziale non basta più.

LA RESISTENZA ALL’INSULINA COME MOTORE PRINCIPALE

Il deterioramento delle reti cerebrali diventa evidente quando aumenta la resistenza all’insulina, rilevabile attraverso l’HbA1c, un parametro che indica i livelli medi di zucchero nel sangue nel tempo. I neuroni si affidano al glucosio e ai chetoni per il loro fabbisogno energetico. Alcuni di essi necessitano dell’insulina per accedere al glucosio, ma in caso di resistenza non riescono più a utilizzarlo correttamente, entrando in una fase di stress metabolico che compromette la comunicazione tra le cellule nervose.

Nelle fasi iniziali dell’Alzheimer, il cervello mostra già una ridotta capacità di assorbire glucosio, tanto che la malattia è stata definita da alcuni ricercatori “diabete di tipo 3”.

Tuttavia, i neuroni mantengono la capacità di utilizzare i chetoni, che non richiedono insulina e rappresentano una fonte energetica alternativa. Anche in presenza di deterioramento cognitivo lieve o Alzheimer, l’utilizzo dei chetoni può essere possibile, sebbene con benefici limitati nelle fasi avanzate. Questo rende fondamentale intervenire nel momento giusto.

FINESTRE DI INTERVENTO

Il declino cognitivo legato all’età non è un destino inevitabile. Secondo la dottoressa Mujica-Parodi, può essere prevenuto se si agisce precocemente sulla resistenza insulinica cerebrale. L’invecchiamento del cervello non è lineare, ma segue una curva a forma di S, con specifiche finestre temporali in cui le strategie preventive risultano più efficaci.

A partire dai 45 anni, le reti cerebrali cominciano a perdere stabilità e coordinazione, in modo simile a quanto accade nel diabete di tipo 2. Tra i 40 e i 60 anni si apre la fase più favorevole per intervenire, quando le reti neurali sono ancora abbastanza flessibili da rispondere positivamente ai cambiamenti.

LA DIETA CHETOGENICA

Interventi mirati sul metabolismo, come l’assunzione di chetoni o la dieta chetogenica, si sono dimostrati in grado di contrastare rapidamente la resistenza all’insulina. Le ricerche condotte dalla dottoressa Mujica-Parodi mostrano che, già 30 minuti dopo l’assunzione di una bevanda a base di chetoni, le reti cerebrali tendono a stabilizzarsi.

In uno studio, i partecipanti a digiuno sono stati divisi in due gruppi e hanno assunto una bevanda a base di chetoni e una a base di glucosio. E sono stati monitorati tramite risonanza magnetica funzionale. È emerso che il glucosio riduce la stabilità cerebrale, mentre i chetoni la aumentano. Effetti simili sono stati osservati anche con una dieta chetogenica seguita per una sola settimana. Il cervello sembra quindi adattare le proprie reti per ottimizzare l’energia, soprattutto in condizioni di carenza.

I chetoni si producono naturalmente con diete a basso contenuto di carboidrati e ad alto apporto di grassi, con il digiuno o mediante integratori. Tuttavia, la prevenzione non deve cominciare solo dopo i 40 anni. Interventi precoci nello stile di vita – come una dieta povera di carboidrati raffinati, ricca di grassi sani e accompagnata da attività fisica regolare – possono ritardare la comparsa della resistenza insulinica. Superata la soglia dei 40 anni, esami più specifici rispetto alla sola emoglobina glicata (che misura i livelli medi di zucchero nel sangue negli ultimi due-tre mesi) possono rilevare segnali precoci e suggerire l’introduzione di interventi mirati, come l’adozione della dieta chetogenica o l’uso di integratori.

Non è necessario seguire una dieta chetogenica rigorosa per ottenere benefici: già una riduzione dei carboidrati processati e un miglioramento della sensibilità insulinica possono favorire la salute cerebrale. Infine, la resilienza cognitiva si rafforza anche attraverso attività intellettualmente stimolanti, l’apprendimento continuo e le relazioni sociali. Lo stress cronico e l’eccesso di cortisolo accelerano l’invecchiamento cerebrale: tecniche come la meditazione possono contribuire a contrastarne gli effetti.

Le informazioni e le opinioni contenute in questo articolo non costituiscono parere medico. Si consiglia di confrontarsi sul tema col proprio medico curante e/o con specialisti qualificati.

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