Nessuno se n’è accorto, ma con i dazi Trump ha concentrato gran parte della (propria) attenzione sulla Cina e non sull’Ue. In risposta ai dazi arrivati ora a quota 54%, il regime cinese ha risposto con dei controdazi del 34% sulle importazioni americane, diventando il primo Paese a prendere una posizione netta. Ma Trump ha subito alzato la posta e avvertito di un ulteriore aumento del 50% sui prodotti cinesi. I nuovi dazi entreranno in vigore dal 9 aprile, interrompendo anche ogni negoziato con la Cina. Il ministero del Commercio cinese ha dichiarato che Pechino non accetterà le richieste di Trump e promette di «lottare fino alla fine».
Al momento oltre 50 Paesi hanno deciso di negoziare con gli Stati Uniti. Diversi esperti ritengono che, nonostante le iniziali resistenze, molte nazioni finiranno per cedere alle richieste dell’America, a eccezione del regime cinese: «Xi Jinping si è presentato in patria e all’estero come colui che terrà testa all’America, primo fra tutti» dice Christopher Balding, analista del think tank britannico Henry Jackson Society; quindi «per Xi sarebbe disastroso apparire come uno che si piega a Trump». Gli analisti sostengono inoltre che il Pcc non possa, né voglia, concedere agli Stati Uniti quello che chiedono: il controllo delle esportazioni dei precursori del fentanile e l’apertura del mercato cinese.
IL VERO OBIETTIVO DI TRUMP È IL PCC
Secondo Balding, il vero obiettivo di Trump è il Partito comunista cinese. E l’amministrazione Trump si mostrerebbe aggressiva nei confronti del mondo intero per non tradire il suo vero e unico obiettivo. Secondo questa interpretazione, tutti i dazi sarebbero concepiti solo per incentivare dei negoziati in cui poi arretrare e arrivare a un compromesso. Tutti tranne quelli imposti alla Cina, che sono talmente alti da escludere praticamente ogni dialogo.
Canada, Messico e Cina, infatti, erano già soggetti ai dazi “politici” del 25% per il fentanile; la scorsa settimana, però, Canada e Messico sono stati esclusi dai dazi “economici”. Pechino invece vede aggiungersi alla lista un ulteriore dazio oltre a quello per il fentanile, portando la maggior parte delle sue importazioni a un totale di dazi di oltre il 60%, come Donald Trump aveva promesso in campagna elettorale. Xi Jinping, ragionano gli analisti, a questo punto dovrebbe praticamente calarsi le braghe davanti agli Stati Uniti per raggiungere un accordo. E ovviamente questo non accadrà mai. E anche nell’ipotesi in cui accadesse, la situazione sarebbe insostenibile per il regime cinese. Per cui, secondo Balding, Trump mira a «staccarsi il più possibile dalla Cina», ossia a eliminare la dipendenza economica degli Stati Uniti dalla Cina causata da decenni di politiche globaliste.
Molte delle politiche estere di Trump sono mirate, direttamente o indirettamente, alla Cina. In un’intervista a Cbs News, il ministro del Commercio Howard Lutnick ha spiegato che lo scopo dei dazi internazionali è fermare il cosiddetto transhipment, ovvero la spedizione di beni cinesi verso gli Stati Uniti attraverso Paesi terzi; una triangolazione usata da molte aziende cinesi durante il primo mandato di Trump per aggirare i dazi. Per cui, anche per questo, è stato necessario colpire tutto il mondo con i dazi.
Il ministro degli Esteri Usa, Marco Rubio, nel suo primo viaggio ufficiale ha visitato Panama, e questa poco dopo ha annunciato l’annullamento dell’accordo della Nuova Via della Seta col regime cinese. Un consorzio di imprese americane guidato da BlackRock sta inoltre acquistando la compagnia di Hong Kong che gestisce i porti del Canale di Panama. Ma l’accordo del 2 aprile è saltato perché l’agenzia cinese di regolamentazione del mercato ha avviato un’indagine formale pochi giorni prima.
E anche l’interesse di Trump per la Groenlandia, considerata fondamentale per le risorse naturali e il controllo delle rotte commerciali internazionali, è legato alla Cina: Rubio ha detto chiaramente che gli Stati Uniti vogliono comprarla perché ritengono che la Danimarca non sia in grado di resistere all’infiltrazione del regime cinese.
TRUMP HA IMPARATO LA LEZIONE
Secondo gli esperti, Trump ha imparato dal primo mandato e ora affronta il Partito comunista cinese in modo diverso. La prima volta, Trump ha impiegato due anni per negoziare e firmare un accordo commerciale di “fase uno” con la Cina. Accordo che il Pcc (naturalmente) non ha rispettato, evitando l’acquisto di prodotti americani per un valore di 200 miliardi di dollari. Trump ha anche ricordato più volte che Xi Jinping si sarebbe dovuto impegnare a punire chi produce e traffica fentanile negli Stati Uniti: un’altra promessa non mantenuta.
A questo punto, è abbastanza evidente come la strategia del Pcc sia la procrastinazione: due anni per arrivare a un accordo e un altro anno per scoprire che Pechino non lo rispetta; e poi al quarto anno (in America) c’è la campagna elettorale, e il gioco ricomincia. Questa volta però, Trump ha imposto dazi pesantissimi immediatamente, costringendo il regime cinese a una gara di resistenza.
Il deficit commerciale americano con la Cina l’anno scorso è stato di circa 300 miliardi di dollari. Questo significa che un dazio del 34% peserà molto di più sulla Cina che sugli Stati Uniti. L’economia cinese infatti si basa da decenni sulle esportazioni; nel 2024, la crescita delle esportazioni è stata una delle poche note positive per il regime. E la Cina, che fatica non poco a stimolare la domanda interna, ha sempre più bisogno di acquirenti stranieri per la sua mastodontica iper-produzione. Meno esportazioni, porteranno quindi a un accumulo di merci invendute nei magazzini che il mercato interno cinese non potrà minimamente assorbire, aggravando così l’impatto dei dazi.
Gran parte delle esportazioni cinesi verso gli Stati Uniti riguardano beni fungibili, facilmente rimpiazzabili dai consumatori americani, che quindi non pagheranno grossi rincari comprando prodotti di altri Paesi.
Un’eccezione saranno le terre rare, che ovviamente non sono beni di consumo; la Cina ne produce il 90% a livello mondiale. Il 4 aprile, Pechino ha aggiunto alcune terre rare ai controlli sulle esportazioni, come ritorsione ai dazi. In questo senso, ora è chiaro perché Trump si sia attivato per reperire le terre rare altrove (Ucraina e Russia) molto prima di parlare dei dazi. E quando i prezzi di queste materie prime, fondamentali per armi ed elettronica, non saranno più tenuti artificialmente bassi dal monopolio cinese, molte più aziende potranno entrare nel settore, prevedono gli analisti. La strategia dell’amministrazione Trump inizia quindi a prendere forma.
IL VANTAGGIO DEGLI STATI UNITI
Ma chi ha più da perdere in questo scontro (per ora solo) economico? Per gli analisti, al Partito comunista cinese interessa unicamente la propria sopravvivenza: anche se i cinesi diventeranno più poveri e vivranno vite di stenti e miserie, Xi Jinping potrà comunque restare in sella usando il pugno di ferro. Come d’altronde prima di lui hanno già fatto tutti gli altri dittatori comunisti cinesi, Mao Zedong e Jiang Zemin in primis.
Trump, dal canto suo, dovrà riuscire a fare incassare il colpo all’economia americana, osservano gli analisti. Il Presidente potrà mantenere la sua linea dura contro il Pcc se l’economia reggerà lo shock iniziale e se gli elettori non perderanno la pazienza; ma anche questo è un problema relativo: gli americani credono fermamente in Trump. E comunque lui è al suo secondo mandato.
Rimane il fatto che, la settimana scorsa, il mercato azionario americano ha subito un crollo, bruciando oltre 6 mila miliardi di dollari. E questo ha messo sotto pressione la Casa Bianca. Sempre secondo gli analisti, Trump è comunque in grado di reggere il colpo, mentre il mercato si riassesta; anche perché questa amministrazione sta dando la priorità alla sicurezza nazionale, che per il popolo americano adesso è la cosa più importante (mentre Wall Street vede solo i profitti).
D’altra parte Trump questo lo ha detto chiaramente, definendo il crollo del mercato un sacrificio necessario per riequilibrare l’economia e riportare la produzione in America: «A volte, bisogna prendere una medicina amara per curarsi». Il Presidente ha anche reso esplicito il collegamento tra il disavanzo commerciale e la sicurezza nazionale, spiegando come il regime cinese con i soldi del surplus ci finanzi le forze armate: «Io non voglio che intaschino 500 o 600 miliardi all’anno per spenderli in armamenti» da usare contro l’America.
Secondo gli analisti, a Trump adesso serve riuscire a negoziare degli accordi con Paesi dal ruolo chiave quali Vietnam, Corea del Sud e Giappone, per poter ridurre significativamente i dazi entro maggio; in questo modo le imprese potranno contare su solide certezze e il mercato azionario si stabilizzerà.
La cosiddetta “guerra non convenzionale”, insomma, non è più appannaggio esclusivo del regime comunista cinese. E Donald Trump sta costringendo il Pcc a combatterla su un campo di battaglia per cui la Cina è pessimamente armata. Un campo di battaglia che è, invece, ideale per gli Stati Uniti d’America.