Il regime cinese teme i dazi e delocalizza

di Redazione ETI/Milton Ezrati
24 Marzo 2025 14:47 Aggiornato: 25 Marzo 2025 17:48

Le aziende cinesi hanno iniziato a muoversi contro le minacce di dazi di Trump ancor prima che venissero emessi. Alcuni produttori hanno tagliato i costi per abbassare i prezzi e attenuare l’impatto dei dazi sugli acquirenti americani. Altri hanno spinto sull’acceleratore per spostare la produzione in altri Paesi asiatici, dove i dazi non arrivano. Entrambe le strategie del Pcc potrebbero salvare il flusso di merci verso gli Stati Uniti, ma nessuna delle due si sposa con i sogni di Xi Jinping, che vuole un’economia cinese al comando e perfettamente “blindata” contro le pressioni straniere.

Da quando è tornato alla Casa Bianca, Trump ha colpito due volte le importazioni cinesi: il 3 febbraio ha emesso un dazio del 10% su tutti i prodotti made in China, seguito da un ulteriore dazio del 10% il 10 marzo scorso. La Casa Bianca ha anche preso di mira le compagnie di navigazione cinesi e le navi costruite in Cina che attraccano nei porti americani, proponendo nuove imposte. Trump ha promesso altri dazi, senza però rispolverare quel 60% di imposte di cui si è parlato in campagna elettorale.

Pechino, forse con un occhio ai negoziati futuri, ha risposto silenziosamente, annunciando dazi dal 10 al 15% su alcuni beni americani: carbone, gas naturale liquefatto, petrolio grezzo e macchinari agricoli. I dazi cinesi pesano su 35 miliardi di dollari sulle esportazioni degli Stati Uniti, briciole rispetto ai 525 miliardi di merci cinesi dovuti ai nuovi dazi americani.

Alcuni produttori cinesi quindi hanno deciso di tagliare costi e prezzi per evitare di penalizzare i clienti americani, sperando di non perdere volumi di vendita. Questa è la strategia più usata da aziende di elettronica e retail. Ma per altre aziende, come la Lenston Tyre di Qingdao, i margini di profitto sono già troppo sottili per permettersi ulteriori sconti.

Queste aziende stanno cercando una soluzione radicale: spostare le fabbriche fuori dalla Cina, soprattutto nel Sud-est asiatico, Vietnam, Indonesia, Thailandia, Malesia, dove appunto i dazi di Trump non mordono. I dazi americani, in fondo, non hanno stravolto i piani delle aziende cinesi: li hanno solo fatti correre più forte su strade già aperte. Già nel 2018-2019, prima ancora dei dazi, le aziende di Pechino guardavano all’estero per sfuggire ai salari cinesi, schizzati alle stelle. Oggi infatti un salario base in Cina è quasi il 150% più alto che in Vietnam. Una forbice che ha spinto compratori e investitori occidentali e giapponesi a cercare altrove, seguiti dalle aziende cinesi.

A dare una mano a questo esodo ci ha pensato il Covid, e ancor di più le politiche Zero Covid di Pechino, che si sono protratte per anni. Lockdown e quarantene hanno inceppato la capacità della Cina di consegnare in tempi accettabili a Occidente e Giappone. Quando questi clienti hanno cercato alternative, i produttori cinesi li hanno seguiti.

Non è un caso: nel 2023 gli investimenti cinesi in stabilimenti nell’area Asean (Associazione delle Nazioni del Sud-est Asiatico) hanno sfiorato i 25 miliardi e 100 milioni di dollari, schizzando del 35% rispetto all’anno prima.

Mentre le aziende cinesi si riorganizzano, i mercati valutari  le aiutano. Con i dazi di Trump del 2018-2019, lo yuan è sceso del 10% sul dollaro, tagliando i prezzi dei prodotti cinesi per i compratori americani e smorzando l’impatto dei dazi.

Le merci verso gli Stati Uniti quindi non si sono fermate. Nelle ultime settimane, coi nuovi dazi, lo yuan ha perso terreno sul dollaro, ma non abbastanza da compensare la perdita. Un crollo più netto potrebbe replicare la stessa situazione di di sette anni fa, ma per ora è solo un’ipotesi.

Anche se lo yuan crollasse, le aziende cinesi non stopperebbero i trasferimenti. Le valute, lo sanno, sono una scommessa incerta. E comunque, questi piani superano i dazi: rispondono alla diversificazione delle filiere di produzione di clienti occidentali e giapponesi, e al divario salariale tra Cina e Sud-est asiatico che resta ampio.

Il vero colpo, però, potrebbe arrivare per Xi Jinping, che punta a un’economia dominante e intoccabile dagli stranieri. Spostare le fabbriche all’estero può salvare le vendite negli Stati Uniti, ma toglie potenza produttiva alla Cina, spostandola in Thailandia o Indonesia.

 

 

Consigliati