Il prodotto interno lordo è sbagliato da 100 anni

di Jeffrey A. Tucker per ET USA
13 Marzo 2025 18:00 Aggiornato: 13 Marzo 2025 18:00

Fin dalla mia prima lezione di contabilità del reddito nazionale, nutro seri dubbi sull’inclusione della spesa pubblica nel prodotto interno lordo. La scelta risale già al 1934, quando i governi di tutto il mondo cercavano di risolvere la Grande Depressione spendendo denaro e accumulando deficit.

Due anni dopo, John Maynard Keynes, l’economista più autorevole dell’epoca, sosteneva che: La domanda è tutto, non importa se arriva da consumatori, produttori o il governo. Basta che ci sia e con essa il denaro per sostenerla, e se non c’è, va stampato. Così è iniziato un lungo processo in cui la produzione privata e la spesa pubblica sono state fuse insieme nei dati ufficiali.

È innegabile che i governi non abbiano risorse proprie. Tutto ciò che possiedono proviene dalla ricchezza creata dal settore privato, attraverso tasse, dazi e l’inflazione e sempre a scapito di chi produce. Si potrebbe discutere su cosa il governo dovrebbe o non dovrebbe fare e sui modi in cui migliora le nostre vite con dei servizi essenziali. Tuttavia, è indiscutibile che le risorse dei governi derivino dalla spese del privato.

Magari ci si aspetta che una serie di calcoli sul Prodotto nazionale lordo ne tengano conto. Di certo, la spesa pubblica non dovrebbe figurare come parte della produzione: sarebbe infatti più logico sottrarla.

Eppure nel 1934, la “nuova economia” ha ribaltato questa logica. A sancirlo è stato il trattato di Keynes del 1936, la «Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta». Un libro contorto, impenetrabile, pieno zeppo di neologismi, errori grossolani e conclusioni assurde, come quella che il governo debba controllare ogni investimento.

Il libro ha preso piede in un’epoca caotica, insieme al suo modello per comprendere la gestione dell’economia generale. Gli economisti hanno preso il testo e lo hanno trasformato in qualcosa di vagamente comprensibile, accompagnandolo con una serie di piccoli postulati. Poi è arrivata la Seconda Guerra Mondiale: la contabilità nazionale ha misurato spese, coscrizione, razionamenti e bombardamenti. Risultato? I dati mostravano un’economia in forte crescita. Tutto poi è diventato complicato. La gente viveva nella miseria, ma gli economisti, numeri alla mano, sostenevano che la guerra avesse messo fine alla Grande Depressione. Una tesi radicata per decenni, finché alcuni storici non hanno dimostrato che era solo un’illusione statistica.

Le agenzie governative, però, hanno proseguito con i vecchi metodi, nonostante i dubbi crescenti. Nel 1962, un mio professore, Murray Rothbard, ha denunciato l’assurdità di questo sistema. Nel suo Man, Economy, and State ha smontato il tutto, esortando gli economisti o a correggere il tiro o a smettere di raccogliere dati: «I servizi pubblici non sono testati dal mercato: è impossibile misurarne il “contributo produttivo”. Tasse e deficit pesano sulla produzione, e questo va riconosciuto. Le attività del governo depredano più che arricchire: è più sensato dire che non aggiungono nulla al prodotto nazionale, ma lo sperperano in usi sterili».

Incredibile quanto tempo ci sia voluto perché quest’idea prendesse forma. Eppure, il nuovo ministro del Commercio Howard Lutnick ha annunciato che la spesa pubblica potrebbe essere scorporata dai futuri rapporti sul Pil. Per un appassionato di economia come me, è una notizia esaltante.

Non tutti, però, concordano. Un economista su Yahoo Finance parla di manipolazione per favorire Trump: «Alterare i dati ufficiali è impensabile. Eppure ci stanno pensando». Impensabile? Solo perché per 100 anni si è fatto l’opposto? Si è detto che l’economia era in forte crescita durante la Seconda Guerra Mondiale o nella presunta ripresa di Biden, ma nessuno se n’è accorto nella vita reale.

Quando i dati saranno corretti, dopo un secolo di errori, spero emerga una metodologia applicabile a ritroso fino agli anni ’30. Potrebbe svelare molto, specie sul dopoguerra. Quanta prosperità abbiamo davvero avuto dal 2020? Probabilmente meno di quanto raccontato. E negli anni ’60 o ’90? Vogliamo saperlo.

Gli economisti sanno da tempo che questi modelli obsoleti, che decretano se siamo ricchi o poveri, in crescita o in recessione, vanno rivisti. Serve un’amministrazione coraggiosa per agire. Trump lo sta facendo. Motivi politici? Forse, ma poco importa: è necessario.

Dagli anni ’50 agli ’80, i manuali prevedevano che il Pil sovietico avrebbe superato quello Usa. Perché? Contavano la spesa pubblica come produttività, ignorando carri armati difettosi, cappotti fragili, scarpe scadenti e raccolti gonfiati. I numeri contano, sì, ma vanno capite le fonti. La pandemia ce lo ha insegnato, in salute pubblica, clima o economia. Le distorsioni filo-governative sono durate abbastanza: vogliamo la verità.

Questo cambiamento mi entusiasma. Spero che Trump vada avanti, magari affiancando al Pil tradizionale un Pil alternativo e più approfondito. Non è  complicato.

Il sapere non può far male a nessuno.

 

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