Il colesterolo Ldl è davvero cattivo?

di Redazione ETI/Sheramy Tsai
10 Aprile 2025 17:56 Aggiornato: 10 Aprile 2025 17:56

Per decenni, il colesterolo a bassa densità (Ldl) è stato considerato il “colesterolo cattivo”, in quanto associato a un aumento del rischio di infarti e ictus. Tuttavia, un recente studio condotto in Cina su oltre 4 milioni di persone solleva dubbi su questa classificazione. Secondo i risultati, l’Ldl potrebbe non essere altrettanto dannoso per tutti i soggetti, delineando un quadro più articolato del suo ruolo nella salute cardiovascolare.

La ricerca, coordinata dal dottor Liang Chen, indica che l’associazione tra Ldl e mortalità varia sensibilmente in base al profilo di rischio cardiovascolare e alle condizioni generali di salute. Se in alcuni gruppi, elevati livelli di Ldl risultano correlati a una mortalità maggiore, in altri il rischio non sembra aumentare in modo significativo. Queste evidenze mettono in discussione l’efficacia di un approccio universale alla gestione del colesterolo, sottolineando la necessità di strategie terapeutiche personalizzate.

LO STUDIO

I dati analizzati provengono dal progetto ChinaHeart (China Health Evaluation and Risk Reduction through Nationwide Teamwork), che ha coinvolto persone tra i 35 e i 75 anni residenti in diverse aree del Paese. I partecipanti sono stati classificati in tre categorie: soggetti a basso rischio cardiovascolare, individui con fattori di rischio ma senza diagnosi conclamata (prevenzione primaria), e persone con una storia clinica di malattie cardiovascolari (prevenzione secondaria).

Lo studio ha considerato diversi parametri, tra cui i livelli di colesterolo Ldl, lo stile di vita (abitudini come fumo e consumo di alcol), e condizioni cliniche preesistenti come diabete e broncopneumopatia cronica ostruttiva. L’obiettivo era valutare in che misura i valori di Ldl influenzassero la mortalità, in particolare quella di origine cardiovascolare.

Durante un periodo medio di osservazione di 4,6 anni, sono stati registrati quasi 93.000 decessi, oltre 38.000 dei quali causati da patologie cardiovascolari. Nei gruppi a basso rischio e di prevenzione primaria, la relazione tra Ldl e mortalità ha assunto una forma a U: sia i livelli molto elevati sia quelli molto bassi erano associati a un incremento del rischio di morte. Nei soggetti in prevenzione secondaria, invece, l’associazione seguiva un andamento a J, con un rischio più alto nei valori estremamente bassi e un rischio minimo a livelli moderati.

Lo studio ha identificato livelli ottimali di Ldl differenti per ciascun gruppo: 117,8 mg/dL per i soggetti a basso rischio, 106,0 mg/dL per quelli in prevenzione primaria, e 55,8 mg/dL per chi ha già avuto episodi cardiovascolari. Sebbene l’American Heart Association continui a sostenere che «più basso è, meglio è», questi dati suggeriscono che tale principio non si applichi a tutti in modo uniforme. Lo studio suggerisce che, con l’aumentare del rischio di malattie cardiovascolari aterosclerotiche, sia opportuno puntare a livelli più bassi di Ldl-C per ridurre la mortalità legata a tali patologie.

Un’ulteriore distinzione è emersa tra pazienti diabetici e non diabetici. Nei primi, il livello ottimale di Ldl per ridurre la mortalità è risultato pari a 87 mg/dL, mentre nei secondi si è attestato a 114,6 mg/dL. Gli autori dello studio ipotizzano che livelli molto bassi di Ldl possano riflettere uno stato di salute già compromesso, piuttosto che costituirne la causa diretta. Anche escludendo individui con patologie croniche, il legame tra Ldl basso e mortalità elevata è rimasto significativo, suggerendo un possibile ruolo della fragilità complessiva dell’organismo.

Secondo il cardiologo Jack Wolfson, livelli estremamente bassi di Ldl potrebbero indicare una disfunzione epatica, mentre valori molto alti rifletterebbero una difficoltà dell’organismo nell’eliminarlo correttamente. In entrambi i casi, si tratterebbe di segnali di squilibrio metabolico che comportano un rischio aumentato per la salute.

UNO SGUARDO NUOVO SUL COLESTEROLO

L’American Heart Association descrive il colesterolo come una sostanza cerosa indispensabile per la formazione delle membrane cellulari e la sintesi ormonale. Nel sangue viaggia sotto forma di lipoproteine, tra cui le lipoproteine a bassa densità (Ldl) e quelle ad alta densità (Hdl).

L’Ldl trasporta il colesterolo verso i tessuti, ma può accumularsi nelle arterie e contribuire alla formazione di placche. L’Hdl, al contrario, favorisce la rimozione del colesterolo in eccesso, trasportandolo al fegato per l’eliminazione. Secondo la dottoressa Ami B. Bhatt, cardiologa e responsabile dell’innovazione presso l’American College of Cardiology, è proprio questa funzione a giustificare la distinzione tra “colesterolo buono” e “cattivo”.

Il dottor Wolfson, tuttavia, mette in discussione tale classificazione, affermando: «Non esiste un ‘colesterolo cattivo’. Tutti i mammiferi hanno l’Ldl, che svolge molte funzioni. Quando ossidato, può essere considerato ‘cattivo’, ma ciò potrebbe riflettere solo uno stress ossidativo generale». Secondo questa visione, la presenza di Ldl ossidato (ox-Ldl) sarebbe un sintomo piuttosto che una causa.

La ricerca più recente si concentra sulla dimensione delle particelle di Ldl: quelle piccole e dense risultano più pericolose rispetto a quelle grandi e leggere, poiché penetrano più facilmente le pareti delle arterie. Di conseguenza, la sola quantità di Ldl non basta a definire il rischio cardiovascolare: la qualità delle particelle diventa un fattore chiave.

Anche il rapporto tra Hdl e Ldl si conferma un indicatore più affidabile rispetto al solo valore dell’Ldl. Secondo uno studio pubblicato nel 2022 su BMC Cardiovascular Disorders, un rapporto elevato, a favore dell’Hdl, si associa a una minore incidenza di eventi cardiovascolari.

Il cardiologo Wolfson invita a superare l’approccio standardizzato nella gestione del colesterolo. «Ognuno ha un livello ideale per sé. Ciò che va bene per una persona può essere troppo alto o basso per un’altra». Propone di valutare anche i livelli di infiammazione e stress ossidativo, attraverso indicatori come la proteina C-reattiva, la fosfolipasi A2 e l’ox-Ldl, ritenendoli più predittivi del rischio cardiovascolare rispetto all’Ldl isolato.

Le informazioni e le opinioni contenute in questo articolo non costituiscono parere medico. Si consiglia di confrontarsi sul tema col proprio medico curante e/o con specialisti qualificati.

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