In superficie la questione sembra chiara e semplice: la rapida crescita della Cina si è basata su una strategia di espansione a lungo termine del debito. E, più recentemente, la Cina non è stata in grado di effettuare la transizione dagli investimenti sui beni immobili verso i beni di consumo.
Al mercato ci è voluto un po’ di tempo per capirlo, perché in molti erano convinti che i pianificatori economici di Pechino fossero invincibili. Ora, l’opinione generale (il cosiddetto ‘sentiment’, ndt) è più negativa, nonostante gli ulteriori aumenti di debito e investimenti del 2016.
Ma la banca di investimento Macquarie va contro corrente, sostenendo che il problema del debito non è correttamente interpretato e che il potenziale dell’economia cinese rimane intatto.
Prima di tutto, infatti, Macquarie sostiene che il debito non sia un problema: «Concentrarsi sul debito distrae dal punto principale: il debito dell’economia di Stato è diverso da quello dell’economia capitalista». Infatti, ‘capitalismo di Stato’, in Cina significa che il governo controlla chi presta e allo stesso tempo chi si indebita, perché lo Stato è proprietario di quasi tutte le banche e le industrie. Inoltre le norme di contabilità permettono di proseguire nell’indebitamento a tempo indefinito.
Il sistema bancario cinese era fallito già alla fine degli anni 90, ma il regime aveva nascosto la sporcizia sotto il tappeto, sacrificando le banche peggiori e sfruttando vari artifici contabili per far dimenticare il problema.
In linea di principio il regime potrebbe rifare la stessa cosa anche ora, anche se questa volta potrebbe non farla franca.
L’Istituto di Finanza internazionale, in una sua relazione spiega infatti che «analogamente alla crisi del 1999, la speranza è che la crescita del Pil in termini nominali aumenti abbastanza da ridurre il tasso di indebitamento a una proporzione gestibile. Ma considerando la bassa crescita generale e il crollo della produttività, una simile strategia potrebbe, al contrario, portare a uno scenario simile a quello del ‘decennio perduto’ del Giappone».
Il declino del tasso di utilizzo della capacità produttiva è solo uno dei vari indicatori che dimostrano un grande spreco di capitale e forza lavoro [il ‘Tasso di utilizzo della capacità produttiva’ è un valore che indica la percentuale di potenziale produttivo di un impianto industriale, o di un intero Paese, effettivamente sfruttata: se, ad esempio, è il 50% significa che l’industria ‘perde’, a parità di impianti e tecnologia, la metà della sua produzione, ndt]. E questo significa che in futuro non ci sarà nessun aumento del Pil senza un aumento del debito.
Un ulteriore cambiamento rispetto a una quindicina di anni fa, è che la Cina non controlla più come prima i propri correntisti bancari. I risparmiatori cinesi, i prestatori di ultima istanza dell’economia, sono stati relegati a risparmiare per la maggior parte accumulando denaro sul conto corrente. E, nonostante finora le banche riescano a coprire l’ammontare della gran parte dei risparmi depositati, i cittadini cinesi stanno approfittando della liberalizzazione del sistema finanziario per portare i loro soldi fuori dalla Cina.
E persino le aziende di proprietà dello Stato (che in certi casi possono essere a loro volta ‘risparmiatrici’) hanno incrementato notevolmente gli investimenti all’estero, contribuendo alla fuga di 676 miliardi di dollari nel 2015.
La Macquarie sottolinea poi che «l’accumularsi di asset all’estero è più di una semplice preoccupazione», ora che le fughe di capitali stanno impattando gravemente sulla politica monetaria cinese.
Quanto agli aspetti positivi, la Macquarie cita l’ulteriore urbanizzazione e l’incremento di produttività, consumo e servizi. Ma per la banca di investimento, il punto essenziale – che potrebbe effettivamente essere sfuggito ai mercati – è che oltre il 56 per cento della popolazione vive in città, ma solo il 40 per cento è stata regolarmente registrata.
Inoltre, le quattro maggiori metropoli cinesi contribuiscono al Pil meno di Londra o Tokio, ragion per cui c’è spazio per ulteriore crescita. E mentre la maggioranza degli osservatori concorda sul fatto che una riforma del sistema dell’anagrafe libererebbe milioni di cinesi, altri dubitano che la rivoluzione dei servizi e dei consumi che Macquarie presuppone si verificherà solo perché si sfornano più laureati che in ogni altra parte del mondo.
Eric Roth, capo del settore innovazione di Mc Kinsey sostiene infatti che «il mero numero di laureati non si traduce in effettive capacità in grado di trasformare le idee in attività di impresa profittevoli». E ancora: «Le società cinesi hanno abbondanza di strutture e processi, ma soffrono perché non riescono a tradurle in un circolo virtuoso di creazione di valore».
Articolo in inglese: China’s Economy: Is There Something We Are Missing?