Aziende e lavoratori cinesi cominciano a sentire il peso della guerra commerciale con gli Stati Uniti. Mentre il Partito comunista cinese promette di combattere “fino alla fine”, i dazi americani sono sempre più pesanti: gli ordini sono in calo e alcune aziende sono già in crisi.
Sui social cinesi, in mezzo alla propaganda antiamericana e ai contenuti nazionalisti, emergono anche post e video che denunciano licenziamenti di massa e “ferie forzate”, rivelando il lato oscuro di un’economia fondata sull’export che già prima della guerra commerciale era in crisi, alle prese con un alto tasso di disoccupazione, profitti in calo e investimenti esteri in picchiata.
LA CRISI DELLE AZIENDE CINESI
Un imprenditore taiwanese che abbiamo interpellato crede che i dazi americani costringeranno molte fabbriche a ridurre drasticamente l’attività o addirittura a chiudere. Il proprietario di una fabbrica di torce a Yiwu, vede i propri ordinativi ridotti a zero, gli operai arrivano a quattro giorni a settimana liberi, tanto i volumi di affari delle aziende si sono ridotti.
Le fabbriche che producono elettronica, abbigliamento e illuminazione nella provincia del Guangdong, che finora hanno vissuto con gli Stati Uniti, sono in crisi e hanno i magazzini pieni. Il South China Morning Post, quotidiano di Hong Kong, ha riportato che diversi esportatori cinesi hanno abbandonato le proprie merci a metà viaggio lasciandole in mano agli spedizionieri, piuttosto che pagare i dazi, perché sanno che «nessuno le comprerà mai a quei prezzi».
Caixin, altra Testata cinese, dice che il porto di Shanghai, solitamente brulicante di navi, era praticamente deserto il giorno dopo l’annuncio del superdazio del 145%, e prevede un dimezzamento del commercio con l’America. Il colosso di abbigliamento cinese Shein ha provato a delocalizzare parte della produzione fuori dalla Cina, ma il regime comunista lo ha bloccato. Shein e Temu, altri colossi dell’e-commerce cinese, pagheranno caro l’annullamento dell’esenzione de minimis di cui godevano in America, che permetteva l’eportazione negli Stati Uniti di prodotti sotto gli 800 dollari senza pagare alcun dazio.
Il ministero del Commercio del regime comunista cinese ha giurato di «lottare fino alla fine» contro gli Stati Uniti, definendo le sue ritorsioni all’Amercia «del tutto legittime» per proteggere gli interessi nazionali e l’ordine commerciale internazionale. Il 9 aprile, illustrando un rapporto di 28 mila parole sul commercio Usa-Cina, un funzionario del ministero ha ribadito che Pechino ha la «volontà ferrea e molteplici strumenti» per opporsi ai dazi e alle restrizioni economiche di Washington. Il portavoce del ministero degli Esteri cinese, Lin Jian, ha confermato in conferenza stampa che Pechino «non ha paura» di una guerra commerciale.
QUANTO “PESANO” I DAZI?
Nel frattempo, imprenditori e blogger cinesi si chiedono dove porterà la linea dura assunta dal regime cinese. Secondo un’analisi del blog cinese “Logistics and Supply Chain Management”, il proprietario di una fabbrica nella provincia del Jiangsu ha calcolato che solo un dazio del 20% è sufficiente per azzerare i suoi profitti. Il direttore di una fabbrica di elettronica a Suzhou, sempre a condizione di anonimato, ha dichiarato al blog che, il margine di profitto nel 2024 era del 16%, per cui ora con i dazi, lavora in perdita. Un esportatore cinese ha scritto su X che con un dazio del 34% gli era ancora possibile lavorare con gli Usa, ma il dazio del 125% ha totalmente azzerato gli ordini dall’America, costringendolo a lasciare a casa tutti i suoi dipendenti.
In un altro post sui social cinesi si dice che i dazi che azzerano ogni margino di profitto per gli esportatori, e che le fabbriche dovranno competere duramente nel mercato interno, in una «infinita corsa al ribasso»; il post risponde a utenti cinesi (veri o pagati dal regime, non è dato saperlo) che «parlano tutto il giorno di combattere la guerra commerciale a qualunque costo».
Un vlogger di Nanchino, la capitale dello Jiangsu, ha poi confermato quello che “tutti sanno”: il mercato interno cinese non è minimamente in grado di assorbire i prodotti invenduti e che questo significa colossali perdite, economiche per le aziende e di posti di lavoro per il popolo cinese.
Secondo gli analisti, il Partito comunista cinese ha fatto male i conti, non immaginando che Donald Trump avrebbe concesso una sospensione di 90 giorni dei dazi: il Pcc pensava di creare un fronte unito anti-Trump con i Paesi colpiti dai dazi (e probabilmente non chiedeva di meglio) e invece il regime cinese si è ritrovato solo, isolato, restando l’unico a ostinarsi a rifiutare di negoziare. Il Pcc, insomma, è caduto in pieno nella trappola (in fondo nemmeno troppo astuta) dell’amministrazione Trump.
Il 15 aprile, la portavoce della Casa Bianca Karoline Leavitt ha dichiarato in conferenza stampa che «adesso sta alla Cina decidere cosa fare» aggiungendo: «É Pechino che deve fare un accordo con noi, non il contrario».
Il presidente Trump continua a ribadire di essere fiducioso che «la Cina voglia fare un accordo». Ma Trump ha anche osservato che i cinesi «sono un popolo orgoglioso, e non sanno bene come reagire», tradendo così parte della propria (proverbiale) intelligenza negoziale, e dimostrando che quando Washington dice che, nonostante tutto, sono gli Stati Uniti ad avere il coltello dalla parte del manico, la realtà è proprio questa.