Deficit commerciale e desertificazione industriale, il caso di studio Usa

di Jeffrey A. Tucker per ET USA
20 Marzo 2025 15:39 Aggiornato: 20 Marzo 2025 15:39
Il presidente Donald Trump è determinato a ridurre il deficit commerciale e interpreta ogni segnalazione rossa nei grafici come denaro dovuto alla nazione. I fautori del libero scambio lo trovano assurdo e sostengono che non c’è nulla di male nei deficit commerciali, basterebbe azzerare i dazi e lasciar perdere. Chi ha ragione? Riflettiamo su questo tema, che richiede un po’ di contesto storico.
La mia corrente filosofica è essenzialmente libertaria in politica, anche se evito il termine perché può significare tutto e niente. I miei maestri in politica ed economia sono Murray Rothbard e, storicamente, Albert Jay Nock, Frank Chodorov, Garet Garrett e altri, ma poco importa se non li conoscete. Sono gli eredi dei vecchi liberali del XVII-XIX secolo. Amavano e difendevano il libero scambio (Garrett gradiva qualche dazio) quando tutto il denaro del mondo aveva nomi diversi per cose intercambiabili come oro e argento. Le monete celebravano la nazione, ma il loro valore derivava da altro. E questo valeva sia per il denaro contante che per quello cartaceo, che era sempre convertibile a meno che il governo non fosse corrotto.
Molti grandi liberali sostenevano il libero scambio. Tra questi David Hume, Adam Smith, David Ricardo. E, nel XX secolo, Gottfried Haberler (anche lui mio maestro). Dicevano che le barriere commerciali non hanno senso tra nazioni più di quanto ne abbiano all’interno. Delle linee arbitrarie tracciate su una mappa non dovrebbero ostacolare gli scambi. Secondo loro, nessuna nazione dovrebbe temere la concorrenza, che rende solo più competitivi ed efficienti. Il denaro esce mentre le merci entrano, e viceversa: il denaro rientra mentre le merci escono. È il meccanismo del mercato.
David Hume ha approfondito questo sistema e il suo funzionamento, descrivendo l’aspetto monetario con il meccanismo del flusso price–specie. Quando le nazioni importano beni, in cambio mandano denaro all’estero. Se capite il legame tra denaro e prezzi, sapete cosa succede dopo. I prezzi interni calano, quelli esteri salgono insieme ai salari, mentre i costi di produzione aumentano nel Paese esportatore. E nel paese importatore? Si verifica l’effetto opposto. I prezzi scendono, inclusi i salari mentre i costi di produzione diminuiscono. Capite come funziona? Nessun Paese ha un vantaggio permanente su un altro. Solo vantaggi comparativi temporanei, finché i mercati non si riequilibrano, verso un equilibrio teorico.
Certo, questo modello semplice presume due Paesi e un commercio bilaterale. Nella realtà, molte nazioni partecipano a tutte le fasi della produzione. Ma il concetto di fondo rimane: i conti si bilanciano e la produzione compete su fattori diversi da un vantaggio di costo fisso (tranne le risorse naturali, ovviamente). Non pensiate che sia pura teoria perché è così che ha funzionato per secoli. Ed è proprio su questa base che i liberi commercianti predicavano la loro dottrina, affermando che le barriere portano a guerre e povertà, finendo solo per tassare la gente.
Sono d’accordo con tutto questo. Ma qui la storia si complica. Il meccanismo del flusso price–specie ha smesso di funzionare dal 1971, quando gli Usa hanno abbandonato il gold standard e gli altri Paesi lo hanno seguito, rendendo gli Usa una nazione importatrice, con un esteso mercato per i dollari all’estero senza effetti sui prezzi interni. E il previsto calo dei prezzi del Paese importatore non è avvenuto, perché la Federal Reserve ha continuato a gonfiare la moneta all’infinito.
Il sistema di libero scambio per il saldo internazionale si è spezzato con il dollaro fiat, in cui gli Usa forniscono liquidità al mondo intero senza sosta, facendo in modo che gli stessi perdano nel tempo tutto il loro vantaggio comparativo nella manifattura. Le banche centrali estere accumulano dollari all’infinito, ampliando la propria produzione industriale per competere direttamente con gli Usa, settore per settore.
Cari lettori, spero sinceramente che mi abbiate seguito finora, perché capirlo è cruciale. Lo dico anche ai miei amici del libero scambio: non serve fingere di ignorare questi punti perché vanno affrontati. Il deficit commerciale è solo un indicatore di equilibrio, se è in rosso, i prezzi non calano per allinearsi ai concorrenti stranieri, mentre i prezzi e i salari dei concorrenti non salgono per equipararsi a quelli Usa. Non riguarda il grafico, ma l’azzeramento della capacità di competere oltre risorse e debito. I deficit commerciali sono iniziati e sono solo peggiorati.
Il Giappone è stato il primo a capire il trucco dopo il 1973. Il nostro settore dei pianoforti è sparito, poi orologi e sveglie, seguiti dall’elettronica domestica, dai prodotti audio. E infine dalle auto, che hanno superato qualsiasi cosa prodotta nella capitale mondiale delle automobili. In tutti questi settori, gli Usa erano i leader mondiali. Avevamo tecnologia, mercati, infrastrutture, lavoratori, materiali e una lunga tradizione. In circa 10 anni, tutto è svanito. Intanto, la banca centrale giapponese teneva dollari Usa come garanzia per espandere la propria manifattura. Niente saldo. Niente aggiustamenti di prezzi e costi. Ci hanno semplicemente battuto.
I prezzi Usa non sono mai scesi. Quelli giapponesi non sono mai saliti. I mercati internazionali hanno smesso di bilanciarsi. James Baker, sotto l’amministrazione Reagan, aveva provato a risolvere il problema con un accordo sui tassi di cambio (Plaza Accord, 1985) ma non ha funzionato perché non c’era oro da far circolare. Era un mondo di carta moneta e gli Usa avevano la valuta dominante, il che significava una domanda infinita di dollari e conti mai saldati. Non esisteva un meccanismo per imporre un tasso di cambio specifico.
Dopo l’apertura della Cina, anche loro hanno capito il gioco, hanno osservato cosa facevano gli Usa e hanno investito lì, facendolo meglio, finché quell’industria moriva in America e rinasceva in Cina. Tessile, poi giocattoli, cantieristica, abbigliamento, utensili, alla fine praticamente tutto è sparito. Biden ha tentato un nuovo piano investendo nell’energia verde. Ma con i salari bassi e le risorse economiche, la Cina ha prodotto lo stesso a prezzi irrisori. E subito ha venduto pannelli solari e turbine eoliche agli Usa.
Vedete che succede? È un semplice calcolo. Finché il dollaro fiat Usa è la valuta di riserva mondiale, i produttori Usa saranno sempre superati. In queste condizioni, né Hume, né Smith, né Ricardo avrebbero mai difeso il libero scambio. Il loro modello si basa su sistemi di saldo crollati nei primi anni ‘70. Un caro amico economista mi ha scritto che l’indice di produzione industriale Usa ha toccato un massimo storico, quindi non c’è problema. Quell’indice include petrolio e gas, dove gli Usa vanno forte. Ma non dice nulla di reale, e di certo non misura la manifattura tradizionale. 
E ora? L’amministrazione Trump prova a risolvere il problema. Secondo Stephen Miran del Consiglio dei Consulenti Economici, useranno i dazi come sostituto del saldo, alzando i costi delle importazioni per livellare. Fa un ragionamento interessante, e i tecnici possono leggerselo tutto. Potrebbe funzionare, ma io non sono ottimista, perché non si è mai provato nulla di simile. Il mondo non ha mai affrontato un sistema commerciale internazionale così. Il piano potrebbe fallire. Ma smettiamola di far finta che non ci sia un problema, ogni teorico del libero scambio del passato sapeva che così non può funzionare.
Trump cerca di affrontare il problema con strumenti rozzi, che rischiano di spezzare le catene di approvvigionamento e imporre nuovi costi a imprese e consumatori Usa. La mia soluzione? Un gold standard internazionale. Ma purtroppo è uno slogan, non un piano. Io, non saprei come realizzarlo. Tuttavia, se smettiamo di emettere denaro e di creare debito, possiamo tappare qualche falla. È nelle nostre possibilità. E sarebbe un buon inizio. Questo problema non si risolverà finché il dollaro Usa non verrà sgravato dall’impossibile ruolo di valuta di riserva mondiale. Finché è così, manifattura e produzione statunitensi saranno in uno svantaggio insuperabile. È solo matematica.

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