Emanuele Orsini, da sette mesi presidente di Confindustria, ha passato la mattinata di ieri al Congresso della Lega. «Vado agli eventi di tutti i partiti a rappresentare gli interessi degli imprenditori: l’ho fatto con il Pd, Fratelli d’Italia, Forza Italia, Azione e lo farei con il Movimento 5 Stelle se mi invitassero», chiarisce in un’intervista al Corriere della Sera. Ma una proposta per il governo ce l’ha: attingere ai fondi non utilizzati del Piano nazionale di ripresa e dei fondi di coesione per incentivare le imprese colpite dai dazi americani. C’è un rischio di delocalizzazione delle imprese verso gli Stati Uniti per evitare le barriere tariffarie: «È qualcosa che ci preoccupa, i dazi possono incentivare certe scelte. Ne parlo dal mio discorso d’insediamento, prima che arrivassero i dazi: è logico che un imprenditore vada dove trova meno complicato lavorare». Pagare un 20 per cento per accedere al mercato americano accelererà il deflusso: «Qualcuno ci potrà anche pensare. Ma ai nostri associati pesano più le difficoltà in Italia e in Europa che ci creiamo da soli: burocrazia, costo dell’energia, regolamentazione. Per il resto in Italia c’è ancora tanta capacità di fare prodotti unici: trasferirsi negli Stati Uniti in molti casi semplicemente è impossibile. Pensate alla meccanica di precisione, alla moda, all’agrifood, all’alimentare e altri. Sono convinto che ce la potremo fare iniziando a ridurre le barriere interne».
Il consumatore americano vale il 18 per cento del prodotto lordo del mondo. E ora sta dietro un muro: «A Confindustria abbiamo rivisto le stime di crescita dell’Italia nel 2025 dallo 0,8 per cento allo 0,6. Banca d’Italia ha fatto lo stesso. Ma recessione, credo di no. Abbiamo una capacità di adattamento molto forte, se l’Italia reagisce e facciamo ciò che serve». «Veniamo – continua il presidente – da 24 mesi di caduta della produttività, a cui ora si aggiunge l’incertezza generata dalla guerra commerciale. Come fa un imprenditore a investire così? Il primo punto, quindi, è che il governo presenti un piano industriale straordinario a due anni per gli investimenti dove si dica dove vogliamo andare. Come salvaguardiamo i prodotti che funzionano? Come assicuriamo la trasformazione delle imprese mature che hanno difficoltà dettate da norme sbagliate del passato recente? Come apriamo nuovi mercati in America Latina, in India, in Africa?».
Martedì vedrà Giorgia Meloni: «Credo che in Europa un po’ di sveglia serva. L’Unione europea pesa per il 13,4 per cento del Pil mondiale e per il 7 delle emissioni. Intanto altre grandissime economie non si impegnano come noi e non praticano la nostra responsabilità sociale d’impresa. Io sono per la tutela dell’ambiente e la mia stessa azienda ci lavora molto. Ma sull’auto elettrica o i certificati verdi, su cui si è creata una speculazione finanziaria, è chiaro che c’è molto da cambiare». Molti studi mostrano che le imprese più avanti nella transizione verde sono più competitive: «Nessuno chiede a chi ha investito di tornare indietro. Ma come si fa a lasciare tutta questa incertezza in Europa sulle multe per l’auto elettrica? Così gli investimenti non arrivano. Quindi penso che l’Europa debba fare un passo indietro, dev’essere velocissima nel dare linee chiare: che ci si fermi, che gli obiettivi verdi oggi sono sospesi. Il tempo è scaduto» conclude Orsini.