Con Trump torna il Sistema Americano

di Tim Overton per ET USA
14 Aprile 2025 11:10 Aggiornato: 14 Aprile 2025 13:56

Poche dottrine economiche hanno inciso sulla storia degli Stati Uniti quanto il Sistema Americano ideato da Henry Clay, un progetto nato agli inizi dell’Ottocento per rafforzare la nazione, renderla autonoma e trasformarla in una potenza industriale. Fondato su quattro pilastri — protezionismo doganale, un sistema bancario centrale, investimenti infrastrutturali e valorizzazione delle risorse naturali — quel modello accompagnò l’ascesa economica americana. Ma fu progressivamente abbandonato nel secondo dopoguerra, quando la strategia internazionale della Guerra Fredda impose nuove priorità. Oggi le politiche di Donald Trump segnano un ritorno a quei princìpi, puntando a rilanciare l’industria nazionale, l’indipendenza energetica e la solidità economica degli Stati Uniti.

Tra i cardini del Sistema Americano figurava l’uso dei dazi per proteggere le manifatture interne dalla concorrenza estera. Clay comprese che, per potersi sviluppare, le giovani industrie americane dovevano essere tutelate dall’invasione di prodotti stranieri a basso costo. Una scelta che, nel tempo, consentì al Paese di evolversi da economia agricola a potenza industriale.

Oggi Trump ripropone quella logica in chiave contemporanea, imponendo dazi per difendere le imprese americane da pratiche commerciali scorrette e riequilibrare una bilancia commerciale storicamente sbilanciata, soprattutto nei confronti della Cina. Un approccio che mira anche a ridurre la dipendenza dall’estero, rilanciare la produzione interna e contribuire, attraverso le entrate doganali, alla riduzione del debito pubblico.

Il progetto di Clay prevedeva poi una banca centrale capace di garantire stabilità finanziaria. La Second Bank of the United States ebbe il compito di gestire il credito, vigilare sulle banche statali e prevenire le crisi. Nonostante Andrew Jackson ne abbia decretato la fine negli anni Trenta dell’Ottocento, le sue funzioni vennero in seguito recuperate con la nascita della Federal Reserve nel 1913.

Pur criticando spesso le scelte della Federal Reserve in materia di tassi d’interesse, Trump ha sempre difeso la necessità di mantenere un dollaro forte e un sistema finanziario stabile, ribadendo che la politica monetaria deve rispondere innanzitutto agli interessi della nazione e non a quelli delle élite finanziarie internazionali.

Altro caposaldo del Sistema Americano era il ruolo attivo dello Stato nello sviluppo infrastrutturale. Clay intuì che il progresso economico richiedeva collegamenti efficienti tra mercati e territori. Grandi opere come l’Erie Canal, la rete ferroviaria transcontinentale e il sistema autostradale nazionale ne furono il frutto.

Su questa linea si colloca anche l’impegno di Trump per ammodernare le infrastrutture americane. La sua amministrazione ha promosso importanti investimenti in strade, ponti, aeroporti e reti digitali, convinta che una rete moderna sia decisiva per la competitività economica nel lungo periodo. La visione America First punta a valorizzare le industrie nazionali e la creazione di posti di lavoro attraverso grandi opere pubbliche.

Infine, il progetto di Clay puntava a sfruttare in modo strategico le immense risorse naturali del Paese. La storia americana dimostra come l’industria sia cresciuta proprio grazie all’abbondanza di carbone, petrolio, legname e minerali. Durante il mandato di Trump, gli Stati Uniti sono diventati il primo produttore mondiale di energia, riducendo drasticamente la dipendenza dall’estero. La sua politica energetica ha puntato sul potenziamento della produzione nazionale di petrolio, gas naturale e carbone, contribuendo ad abbassare i costi e a rafforzare la sicurezza energetica del Paese.

Per oltre un secolo gli Stati Uniti hanno applicato il Sistema Americano, difendendo la propria industria e promuovendo la crescita nazionale. Ma, dopo la Seconda guerra mondiale, le esigenze geopolitiche della Guerra Fredda imposero una riduzione dei dazi per stringere alleanze internazionali. Se questa strategia contribuì a sconfiggere il comunismo sovietico, di contro avviò il declino del settore manifatturiero americano.

A distanza di decenni dalla fine della Guerra Fredda, quelle politiche restano sostanzialmente immutate. Il risultato è stato la perdita di milioni di posti di lavoro, trasferiti all’estero, e il danneggiamento delle imprese nazionali, costrette a competere con Paesi che manipolano le valute e sfruttano manodopera a basso costo. L’agenda economica di Trump punta a ribaltare questo scenario, restituendo centralità a lavoratori e industrie americane.

Nel contesto di una competizione internazionale sempre più serrata, soprattutto con la Cina, resta aperto l’interrogativo: questa filosofia economica potrà restituire agli Stati Uniti il ruolo di prima potenza industriale del mondo? Se da un lato le politiche di Trump hanno suscitato resistenze trasversali, dall’altro hanno trovato consenso tra milioni di americani, che hanno vissuto sulla propria pelle le conseguenze della delocalizzazione e della deindustrializzazione.

Il dibattito sul futuro economico dell’America è tutt’altro che chiuso. Ma una certezza rimane: criticare Trump significa, in fondo, rinnegare il sistema che fece grande l’America. Il Sistema Americano ha già proiettato una volta gli Stati Uniti al vertice mondiale. E la Storia potrebbe ripetersi.

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