L’amministrazione Trump lascia presagire un confronto con l’Europa sulla regolazione delle grandi aziende tecnologiche. Per quanto riguarda le tensioni con l’Europa, gli Stati Uniti possono esercitare pressioni o attrarre singole nazioni per influenzare la risposta del Vecchio Continente, oppure affrontare le questioni Paese per Paese.
Ma quando si parla delle principali leggi Ue sul controllo di internet, criticate dagli Stati Uniti poiché limitano la libertà di espressione, i leader e i Paesi europei, pur volendo ammorbidirle, ignorarle o revocarle, non hanno il potere di farlo. Per riprendere il controllo della rete, spiegano gli esperti, gli Stati Uniti dovranno confrontarsi direttamente con le leggi dell’Unione Europea, gli 800 membri del Parlamento europeo e la sua politica complessa.
Il Digital Services Act e il Digital Markets Act costituiscono un insieme di norme, valide in tutta l’Unione Europea. Il mese scorso, il presidente della Commissione federale per le comunicazioni degli Stati Uniti, Brendan Carr ha dichiarato che queste norme «non si conciliano né con la nostra tradizione di libertà d’espressione in America, né con l’impegno delle aziende tecnologiche a garantire una pluralità di opinioni».
A febbraio, il deputato repubblicano Jim Jordan ha chiesto chiarezza sulle accuse secondo cui le multe del Digital Markets Act sarebbero una «tassa europea sulle aziende americane». Adina Portaru, consulente legale per l’Europa presso l’organizzazione americana Adf International, ha condiviso le preoccupazioni di Trump, sostenendo che il Digital Service Act abbia «l’effetto di censurare» la libertà di espressione online.
In un’email, Portaru ha scritto che «si sta rafforzando un movimento, dentro e fuori l’Ue, contro il Digital Service Act, e stiamo tenendo d’occhio la situazione per trovare modi di sfidarlo o appoggiare chi vuole cancellarlo».
L’Ue, però, ha più volte respinto le accuse di censura mosse dagli Stati Uniti, ribadendo che la legge mira a rendere l’ambiente online più sicuro ed equo, obbligando i giganti tecnologici a fare di più contro i contenuti illegali, come l’incitamento all’odio e il materiale pedopornografico. Ma chi conosce i meccanismi interni dell’Ue avverte: modificare queste leggi sarà ben più difficile che persuadere un singolo Paese a cambiare le proprie.
L’europarlamentare tedesca Christine Anderson, del partito conservatore Alternative für Deutschland, sottolinea i limiti dei legislatori europei. In un’intervista ha spiegato che il Parlamento europeo non può proporre nuove leggi, ma solo approvarle, restringendo il raggio d’azione dei politici. Parlamento europeo e Consiglio europeo collaborano per adottare o modificare proposte legislative, ma è la Commissione europea a presentarle. «Noi ci limitiamo a votare le risoluzioni», ha detto Anderson, aggiungendo che gli europarlamentari possono inviare risoluzioni non vincolanti per esprimere pareri o richieste, ma senza effetti legali.
La Anderson ha paragonato questo processo a «fare l’elemosina scrivendo una letterina», in cui i parlamentari si rivolgono alla Commissione dicendo: «Sarebbe bello se poteste fare questo o quello. Ma non sono obbligati a farlo. La Commissione è il vero governo», ha precisato, sottolineando che è l’unico organismo con il potere di applicare le leggi.
Rodrigo Ballester, responsabile del Centro per gli studi europei al Mathias Corvinus Collegium ed ex funzionario Ue per 15 anni, ha dichiarato che un cambio di rotta è possibile, ma è difficile. «Quando l’indignazione che si percepisce è troppa, allora forse cambiano direzione», ha detto, citando pressioni internazionali degli Stati membri o dell’industria come potenziali catalizzatori. «Immaginate se Facebook e Twitter decidessero di sospendere i servizi in Europa: un evento catastrofico del genere potrebbe spingerli a ripensarci» ha ipotizzato. Ma anche in quel caso, “ripensarci” significherebbe proporre una nuova legge, un processo lungo che richiede l’accordo di Parlamento e Consiglio.
Ballester ha descritto il Digital Service Act come una «legge centralizzata». Ha spiegato che in Ue esistono due tipi di norme: le direttive, che lasciano agli Stati membri un margine di flessibilità, e i regolamenti, come il Dsa, che sono direttamente applicabili e vincolanti in tutti i Paesi senza bisogno dell’applicazione di leggi nazionali: «Una volta pubblicato, ha effetto immediato».
Il Digital Markets Act vuole assicurare mercati digitali equi e aperti, mentre il Digital Services Act rafforza il controllo sui contenuti, tutela i diritti degli utenti e promuove la trasparenza, sia per le aziende dentro che fuori l’Ue.
Il primo regola il potere di controllo delle grandi piattaforme digitali, il secondo obbliga i social media a rimuovere contenuti illegali, valutare i rischi, prevenire attività dannose online e limitare la “disinformazione”. Non rispettarle costa caro: le multe possono arrivare al 10% del fatturato annuo di un’azienda, salendo al 20% se le violazioni sono molteplici.
Ballester ha evidenziato che le condizioni, specie per le piattaforme online molto grandi, le trasformano in «polizia della libertà di parola». Pur colpendo le Big Tech, questa norma è di natura tale da rendere «quasi impossibile per gli Stati membri sottrarsi». E ha spiegato: «Ed è chiaramente un fardello pesante per l’industria online, soprattutto per le grandi piattaforme», sottolineando che aziende come Meta e Google sono legate alla Commissione europea, che può infliggere multe direttamente, scavalcando i governi nazionali. «Ecco perché il margine di manovra dei singoli Stati è ristretto: si tratta di una legge fortemente centralizzata».
I sostenitori del Digital Services Act sostengono che i dazi di Trump non dovrebbero fermare l’Ue dal reprimere le compagnie tecnologiche. Gli esperti Jakob Ohme, LK Seiling e Claes H. de Vreese hanno affermato su TechPolicy.News che i leader europei devono difendere il Dsa.
L’Ue, scrivono, si trova «a un bivio: il Dsa può consolidarsi o cadere». Se le piattaforme non si adeguassero l’Ue «si impantanerebbe in lunghe dispute legali e, come stabilito dal Dsa, potrebbe escluderle dal mercato europeo», ma «la protesta popolare sarebbe forte al punto da creare problemi». Riconoscono però che il Dsa è «imperfetto e non ancora pronto a difenderci da tutti i rischi delle piattaforme digitali», suggerendo alla Commissione di «insistere nell’applicarlo, con maggiore rapidità e incisività».
E hanno aggiunto: «Per Ong, scienziati e governi che hanno lavorato per anni al Dsa, sfruttarlo come pedina nei conflitti geopolitici è un errore». Norman Lewis, ricercatore di Mcc Brussels ed ex dirigente di PwC e Orange UK, ha osservato che non si intravede alcun cedimento da parte della Commissione: «Prevederlo è complicato. Difficile che facciano marcia indietro, c’è in gioco la loro credibilità. Qualche compromesso a porte chiuse potrebbe esserci, ma in pubblico non molleranno. Finora hanno mostrato di voler tenere duro». E due settimane fa, durante un incontro al Parlamento europeo in Belgio sull’attuazione del Dsa «non c’era il minimo segnale di cambiamenti o aperture». Pur critico verso la legge, Lewis disapprova l’uso dei dazi da parte di Trump per «colpire» l’Ue e il Dsa: «È il commercio trasformato in arma per interferire negli affari interni di un altro Stato, una sorta di ingerenza straniera. La libertà di parola non ci viene regalata dall’alto: si conquista con la lotta, non è un dono, neanche dall’amministrazione Trump. È combattendo per la libertà che diventiamo liberi».
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