La Germania sospende il Patto di Stabilità

di Emiliano Serra
29 Aprile 2025 14:57 Aggiornato: 29 Aprile 2025 21:00

Berlino ufficialmente ha chiesto l’attivazione della “Clausola di salvaguardia” cioè una deroga al Patto di Stabilità e Crescita per poter sostenere i costi del riarmo.  La Clausola, sulla carta è attivabile solo in caso di grave recessione economica nell’area dell’euro o nell’Unione nel suo complesso. In questo caso Berlino ne chiede l’attivazione perché altrimenti non potrebbe permettersi le spese per la difesa. Ma c’è motivo di credere che l’economia tedesca avesse bisogno di una boccata d’ossigeno a prescindere dal riarmo europeo.

Il Patto di Stabilità e Crescita è un insieme di regole dell’Unione Europea introdotte nel 1997, e consequenziali al Trattato di Maastricht del 7 febbraio 1992 (che stabilisce i parametri per accedere all’Ue), che impone una determinata “disciplina fiscale” degli Stati membri dell’euro e prevede principalmente che il deficit annuale di uno Stato membro non superi il 3% del Pil e che il debito pubblico totale sia inferiore al 60% del Pil. Gli Stati presentano programmi di stabilità che sono debitamente monitorati dalla Commissione Europea. In caso di violazione, si attivano procedure di infrazione e in teoria sono possibili delle sanzioni.

Tra gli economisti, è sempre stato pacifico il fatto che il Patto di stabilità sia stato fatto su misura per la Germania, per come questa risultava dal proprio quadro macroeconomico degli anni ’90.

Ai tempi, infatti, la Germania aveva bassa inflazione, crescita stabile e disavanzo pubblico sotto controllo. Ma dopo il crollo del muro di Berlino e la riunificazione della Germania, avvenuta il 3 ottobre 1990, la Germania (Ovest) stava anche pagando gli enormi costi dovuti alla riunificazione con la (poverissima) ex comunista Germania Est. Costi che avrebbero significato l’esplosione della spesa pubblica, e quindi del debito pubblico tedesco.

Nel 1997, quindi, la Germania impose nel Patto di Stabilità delle regole rigide per un modello economico (abilmente) definito in termini positivi: “frugale”, “parsimonioso” e progettato per “proteggere la credibilità dell’euro”, con il marco tedesco come modello implicito per l’euro. La realtà – nota a chiunque conosca un po’ di Storia e di economia – era che la Germania preferiva far pagare al resto dell’Europa (in particolare all’Italia) una buona parte del costo della propria unificazione. Attraverso l’euro.

La riunificazione tedesca ha infatti richiesto investimenti massicci per integrare la Germania Est, che aveva ereditato le infrastrutture obsolete e il sistema produttivo inefficiente del comunismo. Ovviamente, i vari governi tedeschi hanno potuto finanziare questa transizione con un forte aumento della spesa pubblica, portando a deficit di bilancio significativi.
Per gestire l’inflazione derivante dalla spesa pubblica e dalla conversione 1 a 1 tra marco orientale e marco occidentale (che sovrastimava il valore del marco dell’Est), la Bundesbank ha adottato una politica monetaria “restrittiva” (cioè ha molto alzato i tassi d’interesse) nei primi anni ’90, rivalutando artificialmente il marco, rendendo quindi meno competitive le esportazioni tedesche ma attirando capitali dall’estero. Questo ha avuto effetti devastanti su economie come quella italiana, che avevano bisogno di tassi più bassi per stimolare la crescita e gestire l’alto debito pubblico.

Il risultato è stato la fine delle svalutazioni competitive per l’Italia: con l’euro, Paesi come l’Italia hanno perso la possibilità di svalutare la propria moneta per rendere le esportazioni più competitive. Questo ha favorito la Germania, che aveva già un’industria altamente competitiva e poteva contare su una moneta unica che rifletteva più la forza del marco che la debolezza delle altre economie europee. Non solo: la Banca Centrale europea ha adottato una politica monetaria che, pur essendo orientata al “compromesso”, si è spesso allineata alle esigenze delle economie forti come la Germania. Tassi d’interesse troppo alti, in Paesi come l’Italia soffocavano la crescita ma erano adeguati alla Germania, che non aveva più il problema di un marco troppo forte. Anzi: essendo l’euro sì forte ma più debole del marco, l’euro stesso ha reso le esportazioni tedesche più competitive sui mercati mondiali creati dalla globalizzazione, favorendo il boom delle esportazioni tedesche degli anni 2000.

L’accumulo di surplus commerciali finanziati dai deficit di altri Paesi, ha quindi creato squilibri economici nell’area euro. Ma la Germania così è riuscita a trasformare i costi della riunificazione in un vantaggio competitivo, consolidando la propria egemonia economica in Europa, mentre Paesi come l’Italia hanno subito una perdita di sovranità economica e una crescita stagnante. Per questo motivo, persino i professori universitari già 20 anni fa insegnavano che «la Germania ha scaricato i costi della riunificazione sull’Europa» attraverso la politica monetaria restrittiva degli anni ’90. Da un lato, insomma, Paesi come l’Italia hanno perso quote di mercato, dall’altro la Germania ha accumulato enormi surplus commerciali nell’area euro, finanziati dai deficit commerciali di Paesi come Italia, Spagna e Grecia, che hanno importato beni tedeschi.

Inoltre il Patto di Stabilità impone la cosiddetta “austerità prociclica”, ossia costringe a tagliare la spesa pubblica o ad aumentare le tasse proprio quando si dovrebbe fare il contrario ossia durante le recessioni, aggravandole.

In sintesi, il Patto di Stabilità ignora le differenze strutturali tra diverse economie, imponendo un “modello tedesco” che però adesso non si adatta più nemmeno alla Germania. Quindi, dopo che per anni diversi Stati hanno spinto (con scarso successo) per una revisione del Patto, ora che è la Germania a trovarlo inadeguato alla propria situazione, ne chiede la sospensione. Per motivi “personali”, verrebbe da pensare: la pandemia, la guerra in Ucraina e le scelte energetiche che Berlino ha fatto, hanno richiesto interventi pubblici massicci. E l’economia tedesca non è più quella degli anni ’90, con la dipendenza dal gas russo e la concorrenza cinese da una parte, e la costosissima “transizione ecologica” dall’altra.

È quindi più che comprensibile – e persino giusto – che il neoeletto governo tedesco, preoccupato per lo scenario economico e geopolitico che si trova di fronte, corra ai ripari.

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