Xi Jinping spaventato dai dazi gira per mezza Asia

di Agenzia Nova
20 Aprile 2025 7:44 Aggiornato: 20 Aprile 2025 15:50

Il 14 aprile scorso Xi Jinping è atterrato in Vietnam per la sua prima visita all’estero dall’inizio dell’anno. Pochi giorni prima, l’8 aprile, aveva convocato una riunione a porte chiuse con il primo ministro Li Qiang e gli altri fedelissimi del comitato permanente del politburo del Partito comunista, per i primi colloqui ad alto livello sulla «diplomazia di buon vicinato» dal 2013.

Nel corso dell’incontro, Xi aveva evidenziato la necessità di «accantonare le divergenze» con i vicini asiatici e rinsaldare le relazioni strategiche «in una fase critica, in cui le dinamiche regionali sono profondamente interconnesse con le trasformazioni nel panorama globale». È stato questo il primo passo della nuova strategia diplomatica cinese per rispondere alla guerra commerciale con gli Stati Uniti, che il presidente Donald Trump ha rilanciato dal suo ritorno alla Casa Bianca, il 20 gennaio, con dazi fino al 145 per cento sulle merci provenienti dal Paese asiatico. La misura non ha colto di sorpresa i decisori cinesi che, memori della guerra commerciale scatenata da Trump durante il suo primo mandato, hanno risposto colpo su colpo alle nuove misure con dazi ritorsivi del 125 per cento, restrizioni allo scambio di terre rare, allerte di viaggio e svariati reclami all’Organizzazione mondiale del commercio. E mentre Washington alza nuove barriere, la Cina riparte dall’Asia e guarda al Sud globale. In cerca di nuove amicizie e per consolidare vecchie alleanze.

Vietnam, Malesia e Cambogia sono la prima linea della controffensiva. Dal 14 al 18 aprile, Xi ha condotto una missione nei tre Paesi del sud-est asiatico prospettando nuove opportunità di cooperazione nel campo del commercio, della logistica, dell’intelligenza artificiale e della transizione verde, in risposta ad un «rampante unilateralismo e protezionismo». La regione è da anni al centro della rivalità strategica tra Pechino e Washington, ma è anche un teatro in cui le nuove pressioni economiche statunitensi si scontrano con un bisogno tangibile di infrastrutture, mercati e investimenti. L’Associazione delle nazioni del sud-est asiatico (Asean), di cui i tre Paesi fanno parte, fu definita dall’ex presidente Joe Biden «il cuore della strategia statunitense nell’Indo-Pacifico», funzionale a contenere la crescente assertività militare cinese nella regione. In questo senso, Washington guarda soprattutto alla cooperazione con Vietnam e Malesia, protagoniste di forti dispute territoriali con la Cina per il controllo di arcipelaghi ricchi di risorse come le Isole Spratly e Paracelso. Allo stesso tempo, l’Asean è il principale mercato d’esportazione della Cina nella regione: nel 2024, l’interscambio tra le parti ha raggiunto un record di mille miliardi di dollari, cifra che ha reso il blocco di dieci nazioni il principale partner commerciale di Pechino per il quinto anno consecutivo. Tramite la Nuova via della seta (Belt and road initiative, Bri), la Cina ha finanziato 165 miliardi di dollari in progetti energetici, logistici e infrastrutturali nei Paesi Asean fino alla fine del 2023, rilocalizzandovi parte della produzione per aggirare i dazi imposti da altri mercati.

Per i tre Paesi, prendere posizione nella contesa commerciale tra Pechino e Washington si rivela dunque una scelta tutt’altro che facile, data anche la loro forte dipendenza dal mercato statunitense per l’esportazione di calzature, componenti elettroniche e abbigliamento. Nel 2024, gli Stati Uniti hanno assorbito il 29,5 per cento delle spedizioni totali del Vietnam (per un valore di 119,5 miliardi di dollari), il 12 per cento di quelle della Malesia (per un valore di 43,2 miliardi di dollari) e il 40 per cento di quelle della Cambogia (per un valore di circa 10 miliardi di dollari). La pressione sulle tre economie è aumentata specialmente dopo i «dazi reciproci» annunciati dalla Casa Bianca il 2 aprile, con Hanoi, Kuala Lumpur e Phnom Penh che puntano a rinegoziare i tassi del 46, del 24 e del 49 per cento sulle rispettive merci entro la moratoria di novanta giorni concessa da Trump il 9 aprile scorso ai partner commerciali (ad eccezione della Cina). La visita di Xi Jinping in Vietnam, che si è conclusa con il lancio di un meccanismo di cooperazione ferroviaria e la stipula di 45 accordi su connettività, intelligenza artificiale, ispezioni doganali e commercio di prodotti agricoli, non ha mancato di attirare le critiche dello stesso Trump. In un punto stampa tenuto il 14 aprile alla Casa Bianca, il tycoon ha espresso parole dure sugli incontri di Xi ad Hanoi, definiti un mezzo per «capire come possiamo fregare gli Stati Uniti d’America». Nonostante molte economie asiatiche in via di sviluppo si stiano allineando alla Cina, i rapporti restano complessi con l’India – con cui Pechino ha avviato però un disgelo sulle annose dispute di confine – e con le Filippine, le cui rivendicazioni sono strettamente intrecciate a quelle di Pechino nel Mar Cinese Meridionale.

In Asia si registra inoltre l’inquietudine circa un’eccessiva influenza cinese e il potenziale impatto su Paesi piccoli e strutturalmente più deboli. Come sottolinea James Char, esperto di Cina presso la Rajaratnam School of International Studies di Singapore, il sud-est asiatico nutre «riserve sul potenziale della Cina di diventare una potenza egemone liberale». Ciononostante, le politiche protezionistiche e imprevedibili di Donald Trump continuano a creare margini di manovra inattesi per Xi, offrendogli l’opportunità di ricucire i rapporti con vicini tradizionalmente diffidenti come Giappone e Corea del Sud (il 22 marzo i ministri degli Esteri dei tre Paesi si sono incontrati a Tokyo e hanno stabilito di potenziare la cooperazione, anche se non sono mancate le frizioni) e, soprattutto, con l’Unione europea. In un incontro tenuto a Pechino l’11 aprile con il primo ministro spagnolo Pedro Sanchez, Xi ha invitato Pechino e Bruxelles a «resistere alle intimidazioni unilaterali» e ad «adempiere alle loro responsabilità internazionali» per salvaguardare la globalizzazione economica e il libero commercio. Nella stessa occasione, ha rivendicato la capacità nazionale di resistere alla pressione esterna, sottolineando che, «in oltre 70 anni, la Cina ha raggiunto lo sviluppo attraverso l’autosufficienza e la perseveranza, senza mai fare affidamento sulla benevolenza altrui, né tantomeno temendo forme irragionevoli di repressione».

Con l’Europa, Xi si muove con cautela, trattando con i singoli governi e tenendo un basso profilo sui dossier più delicati, come la repressione dei diritti imputata alla Cina a Hong Kong e nello Xinjiang, le rivendicazioni cinesi su Taiwan o le controversie territoriali con i Paesi della regione nel Mar Cinese Meridionale. Nonostante il rallentamento dell’economia cinese, su cui pensano la debolezza storica dei consumi e la crisi immobiliare, sommata al timore di ritorsioni da parte degli Stati Uniti, le cancellerie europee si sono dimostrate disponibili al dialogo economico con Pechino, che nella seconda metà di luglio ospiterà il vertice Cina-Ue. L’ipotesi è stata anche al centro della conversazione telefonica in cui, lo scorso 8 aprile, la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen e il primo ministro cinese Li Qiang hanno sottolineato la responsabilità comune di sostenere un «sistema commerciale forte e riformato, libero, equo e fondato su condizioni di parità» nel quadro della guerra commerciale.

A preoccupare l’Europa è anche la «amicizia senza limiti» dichiarata a più riprese da Xi Jinping alla Russia, da cui Pechino ottiene energia e appoggio politico. Dopo una missione di tre giorni conclusa a Mosca il 2 aprile, il ministro degli Esteri cinese Wang Yi ha affermato che le relazioni bilaterali sono «mature, solide e stabili» e che nei prossimi anni si lavorerà per approfondire il coordinamento strategico a tutto campo. Wang ha rassicurato sulla tenuta dei legami anche dopo i colloqui tenuti da Trump e Vladimir Putin sulla questione ucraina, che ha anzi definito una fonte di «ottimismo in un panorama internazionale deludente». La questione sarà ulteriormente approfondita da Putin e Xi nel viaggio che quest’ultimo effettuerà a Mosca il 9 maggio prossimo in occasione della Giornata della vittoria, che celebra la capitolazione della Germania nazista durante la Seconda guerra mondiale. «Sarà il nostro principale ospite d’onore. Avremo la possibilità di parlare dello stato attuale delle nostre relazioni bilaterali e anche di discutere della nostra cooperazione sulle piattaforme multilaterali», ha detto Putin dopo il colloquio tenuto con Wang il primo aprile, in cui ha espresso «soddisfazione per come si sviluppano le relazioni bilaterali». La missione di Wang Yi a Mosca, per il direttore dell’Istituto di Cina e Asia moderna dell’Accademia russa delle scienze Kirill Babaev, prova che «le posizioni dei due Paesi sono più vicine che mai». «Non solo per quanto riguarda questioni specifiche che circondano la crisi ucraina, ma anche per altre sfide geopolitiche. Credo che questa visita trasmetterà principalmente agli Stati Uniti che isolare la Russia o la Cina è impossibile e che i due Paesi stanno ancora coordinando i loro sforzi di politica estera», ha dichiarato Babayev in un’intervista concessa all’agenzia di stampa «Tass» il primo aprile.

Decisivi per la nuova strategia diplomatica cinese sono anche i rapporti con l’Asia centrale, che per Xi rappresenta un corridoio terrestre verso l’Europa e un importante bacino energetico nel quadro della nuova guerra commerciale con Washington. Nel 2013, il segretario del Partito comunista cinese ha scelto Astana, in Kazakhstan, per il lancio della Nuova via della seta, investendo da allora una somma stimata tra 50 e 70 miliardi di dollari in infrastrutture di trasporto, energia e progetti industriali in tutti i Paesi della regione (Kazakhstan, Uzbekistan, Turkmenistan, Kirghizistan e Tagikistan). Tra questi vale la pena di ricordare il coinvolgimento di Pechino nello sviluppo della Rotta internazionale di trasporto trans-caspica (o Corridoio di mezzo), su cui anche l’Europa punta con decisione per potenziare gli scambi commerciali da e verso la Cina aggirando la rete ferroviaria russa. Nonostante i rischi associati ai prestiti concessi da Pechino, spesso con clausole opache e tassi elevati, l’interscambio con i Paesi della regione resta solido e si è attestato a 94,8 miliardi di dollari nel 2024, secondo le dogane cinesi. La volontà di Pechino di proporsi come collante nella regione in risposta alle «ingerenze esterne» è stata sottolineata da Xi Jinping fin dal 2023, quando nel vertice inaugurale Cina-Asia Centrale tenuto a Xi’an, aveva affermato che «nessuno ha il diritto di seminare discordia o fomentare confronti nella regione, tanto meno per perseguire interessi politici egoistici». «Il mondo ha bisogno di un’Asia centrale interconnessa. La regione ha le fondamenta, le condizioni e le capacità per diventare un importante centro di connettività dell’Eurasia e contribuire in modo unico al commercio di beni, all’interazione tra civiltà e allo sviluppo della scienza e della tecnologia nel mondo», aveva aggiunto.

Un ruolo strategico crescente per la Cina è anche quello rivestito dall’America latina, che, con 650 milioni di abitanti e un crescente fabbisogno di beni tecnologici e infrastrutturali, rappresenta un promettente mercato di sbocco per la superpotenza asiatica nel quadro delle restrizioni al mercato statunitense. Nella regione, Pechino si sta insinuando tra i vuoti lasciati da Washington con miliardi di dollari di prestiti infrastrutturali apparentemente «senza condizioni politiche», tra cui il porto di Chancay in Perù, ferrovie in Argentina, dighe in Ecuador, autostrade in Bolivia e progetti di energia rinnovabile in Cile, Brasile e Messico. L’obiettivo non è solo garantirsi corridoi logistici interni verso gli scali e potenziare le rotte commerciali tra Pacifico e Atlantico, ma soprattutto quello di capitalizzare il malcontento verso Washington presentandosi come partner affidabile senza «calcoli geopolitici».

«I popoli latinoamericani vogliono costruire la propria patria, non essere il cortile di qualcun altro», aveva detto Wang Yi in una conferenza stampa tenuta il 7 marzo scorso, indicando nella ministeriale del Forum Cina-Comunità dei Paesi dell’America latina e dei Caraibi (Celac), che Pechino ospiterà nei prossimi mesi, un’opportunità per rafforzare i rapporti «nonostante tutte le difficoltà». La volontà cinese di non cedere terreno nella regione è anche testimoniata dalle forti critiche sollevate dal governo alla vendita pianificata dei porti gestiti dalla hongkonghese Ck Hutchison nel Canale di Panama (quelli di Balboa e Cristobal) ad un consorzio guidato dalla società d’investimento statunitense BlackRock. Dall’annuncio della vendita, il 4 marzo, la diplomazia cinese si è mossa a tutti i livelli per frenare la firma dell’intesa, definita un «tradimento della nazione». Oltre ad annunciare una revisione dell’accordo, il portavoce del ministero degli Esteri cinese Guo Jiakun ha lanciato un velato attacco a Washington, riaffermando la «ferma opposizione» di Pechino a qualsiasi misura che leda i diritti e gli interessi di altri Paesi attraverso «coercizione economica», «pratiche egemoniche» o «prevaricazione».

Le critiche all’accordo sono state rafforzate anche da John Lee, capo dell’amministrazione di Hong Kong e fedelissimo di Xi Jinping. In risposta ai dazi statunitensi, definiti «spietati», il numero uno della regione a statuto speciale cinese ha annunciato l’intenzione di stringere più accordi di libero commercio con il Medio Oriente, dove – secondo indiscrezioni di stampa – potrebbe guidare una delegazione già il mese prossimo. La linea di Pechino è chiara. In una conferenza stampa tenuta il 15 aprile, il portavoce del ministero degli Esteri cinese Lin Jian ha tracciato con nettezza la direzione strategica del governo: di fronte all’inasprimento della guerra commerciale, la Cina del 2025 punta a moltiplicare i ponti, non a erigere barriere. Diplomazia, cooperazione economica e soft power sono le tre direttrici lungo cui Pechino ha scelto di muoversi.

«Insisteremo nello stringere mani invece che serrare il pugno, nell’abbattere muri anziché costruire barriere, nella connessione invece della separazione», ha detto il portavoce, ribadendo che il Paese è pronto a «battersi fino alla fine». La Cina, insomma, tenta di approfittare delle frizioni e delle tensioni provocate su scala globale dai dazi di Trump, una strategia il cui successo dipenderà anche dall’esito dei negoziati che la nuova amministrazione Usa ha avviato con i suoi partner commerciali. Non è un caso, forse, che le prime trattative intavolate a Washington siano quelle con il Giappone. Secondo il «Wall Street Journal», il segretario al Tesoro Scott Bessent ha suggerito a Trump di utilizzare i negoziati proprio come leva per indurre gli interlocutori degli Usa a isolare economicamente la Cina, e tra gli accordi ritenuti prioritari ci sarebbero proprio quelli con i più importanti partner asiatici – Corea del Sud, India e Giappone – a ripristinare un’architettura regionale di alleanze che rischia altrimenti di franare.

 

 

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