Donald Trump ha imposto al regime cinese ulteriori nuovi dazi (oltre al 20% già in essere come ritorsione al traffico di fentanyl) che sommati insieme ammontano al 54%, per un impatto economico del valore di circa 600 miliardi di dollari. E come promesso da Trump in campagna elettorale, i dazi arriveranno al 60% su quasi tutti i prodotti cinesi. Il Presidente ha sottolineato che gli Stati Uniti vantano una posizione di forza sulle altre nazioni, Cina in primis: «d’ora in poi le altre nazioni dovranno pagare per accedere al nostro mercato, che è il mercato più grande al mondo».
Il Partito Comunista Cinese risponde a muso duro, annunciando dazi del 34% su tutte le importazioni americane dal 10 aprile, una ritorsione che rientra in un più ampio piano di rappresaglie, che prevede limitazioni all’esportazione delle terre rare e l’inclusione delle aziende americane nella lista nera del Pcc. Pechino (che, giova ricordarlo, in 24 anni di appartenenza al Wto non ha mai rispettato le regole del commercio internazionale) ha presentato un reclamo all’Organizzazione mondiale del commercio.
Trump ha replicato su Truth osservando come il regime cinese stia «commettendo un grosso errore» e come stia «perdendo il controllo», che è proprio «l’unica cosa che non può permettersi di fare».
I DAZI IN RISPOSTA ALLE PRATICHE COMMERCIALI SLEALI CINESI
Dopo aver aderito alla World Trade Organization nel 2001, la Cina ha visto crescere a dismisura la propria economia. Ma il Partito comunista cinese non gioca secondo le regole del libero mercato occidentale: il modo in cui il Pcc ha aderito all’Organizzazione mondiale del Commercio si è sempre basato sul lavoro sottopagato (e spesso schiavista) di decine e decine di milioni di operai cinesi, che ha permesso al regime di trasformare la Cina nella “fabbrica del mondo”; sul furto/ricatto ai danni delle società occidentali, per appropriarsi della loro proprietà intellettuale; su colossali sussidi statali, che tengono in vita una miriade di “aziende-zombie” in tutta la Cina; sulla distruzione dell’ambiente; sulla distruzione dell’agricoltura; sulla bolla immobiliare, sulla manipolazione della valuta eccetera.
Questo modo di operare del regime comunista cinese, nei decenni, ha causato la chiusura di decine di migliaia di aziende e la perdita milioni di posti di lavoro in tutto l’Occidente.
Nel corso della precedente amministrazione Usa, anche Jake Sullivan, consigliere per la sicurezza nazionale di Joe Biden, aveva difeso i dazi contro la Cina, dicendo che «i tentativi passati di costruire una politica sulla Cina basandosi sulla sua trasformazione hanno fallito».
Durante il suo primo mandato, Trump aveva imposto dazi su oltre 300 miliardi di dollari di merci cinesi per contrastare queste pratiche commerciali scorrette. Biden aveva lasciato in essere quei dazi, aggiungendone altri su prodotti come veicoli elettrici, pannelli solari, attrezzature mediche, batterie al litio, acciaio e alluminio. Entrambe le amministrazioni, insomma, hanno deciso di usare i dazi per rispondere alle scorrettezze commerciali del Partito comunista cinese.
Nick Iacovella, vicepresidente della Coalition for a Prosperous America, un’associazione che tutela produttori e lavoratori, ha dichiarato che i nuovi dazi di Trump contrasteranno decenni di deindustrializzazione negli Stati Uniti e che «è essenziale che queste misure restino attive» perché da anni, ha aggiunto Iacovella commentando la reazione dei mercati ai dazi, si è creata una frattura tra Wall Street e la gente comune: «Quando le Case automobilistiche hanno spostato la produzione in Messico, i prezzi delle loro azioni sono saliti, ma i costi delle auto per i consumatori americani non sono scesi».
Riguardo alle ritorsioni di Pechino, Adam Savit, analista capo per le politiche cinesi presso l’America First Policy Institute, ha osservato che, in realtà, il regime cinese ha meno margine di manovra di quanto si possa pensare: «gli Stati Uniti esportano molto meno verso la Cina rispetto a quanto la Cina esporti verso di noi, e questo è un grosso svantaggio per loro».
Inoltre, le esenzioni ai dazi per le importazioni cinesi a basso costo negli Stati Uniti saranno eliminate dal mese prossimo. Era l’ultima falla nella barriera doganale che Trump ha innalzato contro le merci cinesi.
IL RESTO DEL MONDO
Mentre il regime cinese va dritto verso la guerra commerciale, altri partner commerciali hanno già iniziato a inviare segnali più assennati. Trump ha confermato su Truth di aver avuto una «telefonata che ha portato a ottimi risultati» con To Lam, il segretario generale del Partito comunista vietnamita. Il Vietnam è pronto a negoziare, ha detto Trump, dopo l’annuncio del dazio del 46%. L’anno scorso, il deficit commerciale degli Stati Uniti con il Vietnam ha superato i 113 miliardi di dollari, il terzo più grande dopo Cina (270,4 miliardi) e Messico (157,2 miliardi).
E anche gran parte dell’Ue, a partire dalla von der Leyen in persona, ha assunto toni abbastanza conciliatori nei confronti dei dazi americani: nonostante l’ostilità generale (con poche eccezioni) nei confronti di Donald Trump e della sua amministrazione, il messaggio che l’Ue manda a Washington è molto meno bellicoso di quello che arriva da Pechino.
Quanto al nostro Paese, il presidente del Consiglio e tutti i ministri coinvolti, stanno costantemente ripetendo, ormai da settimane, che i dazi ovviamente ci danneggiano, ma che l’ultima cosa che l’Ue deve fare è rispondere con altri dazi, scatenando la guerra commerciale che senza dubbio ne deriverebbe. Una guerra che l’America, con ogni probabilità, vincerebbe.