Oggi, 5 aprile, ricorre il trentunesimo anniversario della morte di Kurt Cobain, icona tormentata del rock che ha segnato un’epoca con la sua voce graffiante e le sue liriche crude. Il 5 aprile 1994 il leader dei Nirvana viene trovato senza vita nella sua casa a Seattle: si è suicidato con un colpo di fucile. A distanza di decenni, la figura di Kurt Cobain rimane l’ultima vera icona della musica rock. Un genere musicale che, per i veri appassionati, è morto con lui.
Nato il 20 febbraio 1967 ad Aberdeen, figlio di una famiglia modesta, la sua infanzia è sconvolta dal divorzio dei genitori, un evento che lo segna profondamente e che riaffiora spesso nei suoi testi. Appassionato di musica fin da piccolo, Kurt trova rifugio nella chitarra e nei dischi dei Beatles, dei Led Zeppelin e, più tardi, nel punk dei Sex Pistols e dei Melvins. È stato proprio questo mix di melodie pop e aggressività ribelle che poi ha dato vita al suono unico dei Nirvana.
Il successo arriva come un fulmine nel 1991 con Nevermind, l’album lo catapulta al centro della scena mondiale. Smells Like Teen Spirit diventa l’inno di una generazione disillusa, la cosiddetta Generazione X, e il grunge si è imposto come il linguaggio di chi rifiutava le illusioni degli anni ‘80. Con i capelli biondi spettinati, le camicie di flanella a quadri e uno sguardo che sembra sempre perso altrove, Kurt incarnava l’antistar: non ha mai cercato la fama, ma la fama ha trovato lui. «Non ho mai voluto essere famoso», ha confidato più volte, schiacciato dal peso delle aspettative e dalla sua stessa vulnerabilità.
Con un’esistenza segnata da tanti problemi, depressione, dipendenze e dolori cronici allo stomaco, le droghe e in particolare l’eroina diventano la via di fuga costante nella vita di Kurt Cobain, mentre i riflettori del mondo continuano a inseguirlo.
Fino al 5 aprile 1994. Dopo giorni di silenzio, il corpo di Kurt viene ritrovato nel garage di casa sua, al 171 di Lake Washington Boulevard. Accanto al corpo, un fucile e una lettera d’addio indirizzata a “Boddah”, un amico d’infanzia immaginario, nella quale scrive: «È meglio bruciare in fretta che spegnersi lentamente». Entra così, a 27 anni, nel tragico “Club 27” insieme ad altre leggende come Jimi Hendrix e Janis Joplin.
Alcuni, dietro la morte della star, hanno teorizzato un assassinio. Tom Grant, un investigatore privato, in seguito alle indagini ha concluso che Kurt non si sarebbe suicidato. Tra i punti principali della sua tesi c’è il livello di eroina nel sangue del cantante: l’autopsia ha rilevato una concentrazione di 1,52 milligrammi per litro, una dose che secondo Grant e alcuni sostenitori, lo avrebbe reso fisicamente incapace di impugnare e spararsi con il fucile ritrovato sulla scena. Inoltre, i dubbi di Grant sull’ipotesi del suicidio nascono dal fatto che gran parte dello scritto fosse un messaggio di addio alla carriera musicale e non un’intenzione di togliersi la vita, e dalla considerazione che la parte finale in cui menziona Courtney e la figlia Frances, sia scritta con una grafia diversa.
Un altro elemento che alimenta la teoria dell’assassinio è la mancanza di impronte digitali leggibili sul fucile. Secondo il rapporto della polizia del 6 maggio 1994, sono state rilevate quattro tipi di impronte digitali, ma nessuna di queste era chiara. Questa sarebbe la prova che l’arma sia stata pulita da qualcuno dopo lo sparo, a dimostrazione della presenza di un assassino. Ma i tecnici hanno sottolineato che le impronte possono non essere rilevabili su superfici come il metallo di un fucile, specialmente se manipolato con mani sudate o in condizioni particolari.
Altre teorie più fantasiose coinvolgono persino cospirazioni governative o legate all’industria musicale: Cobain, con le sue posizioni anti-establishment, sarebbe stato un bersaglio per chi voleva silenziare la sua voce influente. L’unica cosa certa, oltre al dolore che si è portato nel cuore per tutta l’esistenza, è il vuoto che Kurt Cobain ha lasciato.