Wang Zhiwen, un caso internazionale

Lunedì 29 agosto 2016 a Roma, un piccolo gruppo di persone ha consegnato all’ambasciatore cinese in Italia, una lettera in cui si chiede che il governo cinese dia a Wang Zhiwen, prigioniero di coscienza rilasciato nell’ottobre dell’anno scorso dopo una condanna a sedici anni di carcere, il permesso di espatriare negli Stati Uniti.

Quello di Wang è diventato un caso internazionale grazie all’instancabile attività della figlia Xiaodan, che da sedici anni lotta per liberare il padre.

Il 6 agosto scorso, Xiaodan (o Danielle), che vive negli Stati Uniti da molti anni, credendo che l’incubo fosse finito, era infatti andata in Cina a prendere il padre, ormai sessantottenne e gravemente malato, per portarlo negli Usa.

Ma padre e figlia, nonostante il regolare passaporto e il visto di ingresso per gli Stati Uniti di Zhiwen, sono stati bloccati al confine con Hong Kong dalla polizia di frontiera, che ha revocato il passaporto impedendo a Zhiwen di lasciare il Paese. Danielle Wang è dovuta tornare da sola negli Stati Uniti, mentre Wang Zhiwen vive sotto la stretta sorveglianza della polizia e dei servizi cinesi.

Wang Zhiwen è uno dei prigionieri di coscienza più perseguitati dal Partito Comunista Cinese. La sua storia è praticamente ignota in Italia, e merita di essere raccontata. Non solo per le atrocità che il signor Wang ha dovuto subire dagli aguzzini di Stato del Pcc, ma anche perché è emblematica di quello che è – con ogni probabilità – il caso del più esteso, efferato e incomprensibile accanimento di un regime contro i propri cittadini che la Storia abbia mai visto: la persecuzione della Falun Dafa.

Non si esagera: Wang Zhiwen, quando è stato arrestato il 20 luglio 1999 (lo stesso giorno in cui è iniziata la persecuzione) e condannato, dopo un processo-farsa, a sedici anni di carcere, era uno dei maggiori esponenti dell’Associazione di studio della Falun Dafa.

La Falun Dafa, o Falun Gong, è una pratica spirituale cinese basata sui valori universali di Verità, Compassione e Tolleranza.

Nel 1999, secondo un calcolo dello stesso Pcc, i praticanti della Falun Dafa in Cina (fra cui figuravano anche numerosi funzionari di governo, alti ufficiali delle forze armate e magistrati) erano un numero fra i 70 e i 100 milioni.

Il Falun Gong non è una religione, non ha sacerdoti, né alcun tipo di organizzazione strutturata: si è arrivati a decine di milioni di praticanti (ormai in tutto il mondo) con il semplice passaparola; non esiste insomma alcun genere di ‘organizzazione’ che un partito politico e un governo dovrebbero temere. Non c’è quindi alcun motivo apparente per cui Jiang Zemin dovesse iniziarne la persecuzione.

Il Falun Gong come fenomeno sociale, nei fatti, è semplicemente costituito da persone accomunate dal voler ispirare le proprie vite a Zhen, Shan, Ren (verità, compassione e tolleranza in cinese).

E questa visione autenticamente spirituale della vita, è stata evidentemente sufficiente a scatenare l’ira omicida dell’ex segretario generale del Pcc Jiang Zemin, che in una storica riunione dell’estate 1999 con i massimi dirigenti del Partito (che in gran parte tentavano di opporsi a quello che forse già intuivano sarebbe diventato uno dei peggiori genocidi della Storia) decise di dichiarare fuorilegge la pratica.

Un documento interno scritto da Jiang Zemin, chiariva poi i motivi di quello che nel resto del mondo non sarebbe stato altro che un suicidio politico: «È mai possibile che noi, membri del Partito Comunista, armati del marxismo e della nostra fede nel materialismo e nell’ateismo, non riusciamo a sconfiggere questo Falun Gong?».

Questa è quindi la ‘colpa’ di Wang Zhiwen e di altri milioni di cinesi che, ancora oggi, a quattordici anni dalla fine del ‘mandato’ di Jiang Zemin vengono perseguitati, imprigionati – di solito senza nemmeno il processo farsa subito da Wang – torturati e uccisi dagli aguzzini di Stato cinesi (che appena arrestano i praticanti del Falun Gong, date le loro generalmente ottime condizioni fisiche, li sottopongono a esami clinici per poi catalogarli in funzione della compatibilità dei loro organi a scopo di trapianto: queste persone vengono usate come fornitori forzati di organi umani. Le persone uccise per il prelievo forzato dei loro organi negli ultimi sedici anni risultano essere dai 1,5 ai 2,5 milioni in tutta la Cina).

Ma Wang, in teoria, avrebbe ormai ‘scontato la sua pena’, e ha un regolare visto per gli Stati Uniti.
Di norma il regime cinese cerca, nonostante tutto, di mantenere nei confronti dell’Occidente una certa facciata di rispettabilità: la revoca del passaporto (regolarmente concesso dal ministero di Pubblica Sicurezza cinese a gennaio 2016) e l’opposizione a dare esecuzione al visto di ingresso negli Stati Uniti, rappresentano insomma un mancato rispetto da parte del Pcc delle sue stesse regole, e sono dati di fatto che stridono particolarmente con ‘l’ansia da reputazione’ del Pcc.
Questo anche alla luce dell’ondata di indignazione sollevata nel mondo della politica americana: il presidente del Comitato per i diritti umani della Camera Chris Smith, l’analista politico della Commissione internazionale per le libertà religiose Tina Mufford e il portavoce del ministero degli Esteri degli Stati Uniti si sono tutti pronunciati contro questo ennesimo atto persecutorio inflitto dal Pcc a Wang Zhiwen.

Quello di Wang è insomma un caso dalla forte valenza politica. E non sorprende che le autorità cinesi non lo lascino espatriare: sedici anni di carcere, di torture fisiche e psicologiche e di lavaggio del cervello sono a dir poco ‘scomodi’, per lasciare che chi ne è stato vittima possa portarne testimonianza davanti a giornalisti, parlamentari e cittadini di tutto l’Occidente.

Per approfondire: 

 

 
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