Uber nella morsa del sistema cinese

Pechino ha legalizzato le applicazioni per il servizio di trasporto automobilistico online come Uber China e il suo concorrente nazionale Didi Chuxing. La mossa ha spinto Uber a elogiare la Cina come un Paese «lungimirante quando si tratta di business innovativi».

Però, un riesame più attento delle indicazioni normative date nel corso dell’ultima settimana – e che entreranno in vigore dal 1 novembre – mostra che la decisione della Cina è più vantaggiosa per lo Stato che per le aziende dell’industria del ridesharing. Molte disposizioni, infatti, sono state lasciate indeterminate e almeno una potrebbe gravemente ostacolare la strategia di espansione di Uber China.

Il servizio di trasporto automobilistico ha registrato una forte crescita in Cina, dove gran parte dei giovani utilizza gli smartphone quotidianamente. Didi con sede a Pechino, che annovera Apple tra i suoi investitori, dichiara di gestire oltre 10 milioni di corse al giorno.

Uber China, Didi, e un concorrente minore, Yidao Yongche, in passato si sono mossi in una zona grigia. In alcune città, sono divampate proteste da parte dei tassisti, mentre alcuni conducenti di car-sharing sono stati arrestati e hanno subito il sequestro del mezzo. Mentre in altre, dove sono stati lasciati in pace, il ridesharing è diventato la principale alternativa di trasporto.

Le normative recentemente annunciate devono ancora essere recepite dalle amministrazioni regionali e locali, ma comunque inquadrano il settore in un contesto normativo di legittimazione e legalità sul piano nazionale che permette alle aziende di operare.

STRUTTURA BASE

Le regolamentazioni formulate da Pechino vietano ai servizi di trasporto automobilistico di utilizzare auto con più di sette posti e più di 600 mila chilometri. Inoltre, i conducenti autorizzati devono avere minimo tre anni di esperienza come guidatori e la fedina penale pulita.

La normativa dà a Pechino anche una maggior supervisione sull’uso delle applicazioni per il ridesharing e sul controllo della diffusione. Il Ministero dei Trasporti ha anche annunciato che le norme di circolazione locale e le tasse dovrebbero essere determinate dagli enti locali.

Alcune delle regole più draconiane – come quella secondo cui tutti veicoli avrebbero dovuto essere registrati per uso commerciale – sono state rimosse dall’originale regolamentazione proposta, rilasciata lo scorso ottobre. Questo avrebbe reso l’attività di guida part-time (un principio cardine della sharing economy) troppo costosa.

Apparentemente si tratta di buone notizie per Uber China e Didi, che hanno entrambe chiuso un nuovo ciclo di finanziamenti il mese scorso. Didi, il più grande servizio di auto a chiamata in Cina, ha infatti raccolto sette miliardi di dollari.

CONTROLLO DEI DATI

Ma, in realtà, quello che è accaduto è che il Partito Comunista Cinese in un colpo solo ha legittimato un settore per poterlo tenere in pugno.

L’articolo 5 del nuovo regolamento – pubblicato il 27 luglio in cinese su Xinhua – richiede alle imprese di installare server fisici per il ridesharing in Cina, e di ottenere l’approvazione statale per poter lavorare con una piattaforma tecnologica; le informazioni degli utenti e i dati relativi alle auto devono restare memorizzati sui server per due anni.
Sebbene il ministero dei Trasporti non abbia nominato nessuna azienda in particolare, questa clausola sembra direttamente mirata a Uber China.

Come per le altre aziende tecnologiche straniere che operano in Cina, Uber China sarebbe soggetta ai controlli di sicurezza. La controversa legge sulla sicurezza informatica cinese, emanata lo scorso anno, ha costretto le aziende tecnologiche a inserire le cosiddette backdoor nei loro software e hardware, a consegnare i codici sorgente e a dare acccesso alle chiavi crittografiche.

In altre parole, Pechino vuole l’accesso alla proprietà intellettuale, ossia al principale valore delle imprese tecnologiche.

E crescono anche le preoccupazioni per la privacy e per i diritti umani: nelle mani del Partito Comunista Cinese, i dati e le informazioni raccolte con queste cosiddette ‘misure di sicurezza’, sarebbero un altro strumento utilizzato dal regime per monitorare l’ubicazione dei suoi cittadini, nonché per individuare e arrestare i dissidenti politici.

IL COSTO DELLA REGOLAMENTAZIONE

Per le compagnie di noleggio auto, in particolare per Uber China, la strada è quindi piena di insidie.
L’articolo 21, ad esempio, fornisce lo schema concorrenziale di riferimento, ma è probabile che faccia fallire il modello business di Uber China assieme alla sua attuale strategia per procurarsi quote di mercato: si afferma che le aziende non possono tentare di raggiungere una posizione dominante offrendo corse «sottocosto» o «sconvolgendo il normale ordine di mercato, mettendo in pericolo l’interesse nazionale o i legittimi diritti e interessi degli altri operatori attraverso un’impropria politica dei prezzi».

Senza fornire dettagli, Pechino ha annunciato che i prezzi saranno esaminati sia a livello nazionale che locale. L’indeterminatezza di questa normativa costituisce un rischio per l’intero settore, ma una cosa è certa: è probabile che venga vietata la strategia di Uber China di attrarre nuovi clienti con prezzi aggressivi e «sotto costo».

L’inserimento in un nuovo mercato è sempre estremamente costoso: l’amministratore delegato di Uber, Travis Kalanick, ha dichiarato a febbraio che Uber l’anno scorso in Cina ha perso un miliardo di dollari.
Gran parte del merito del successo iniziale di Uber China si riduce alla sua strategia di utilizzare denaro contante per attrarre nuovi conducenti e nuovi clienti: per espandersi in nuove città, Uber ha regalato altissimi bonus per accaparrarsi i conducenti, a volte pagando fino al triplo della tariffa. Mentre per quanto riguarda i clienti, a volte Uber ha mantenuto tariffe insolitamente basse per raggiungerne di nuovi, pagando un rimborso ai conducenti. Nelle nuove città in cui è entrato, l’approccio su due fronti ha mantenuto le corse di Uber molto più economiche rispetto a quelle dei taxi.

Sia Didi che Uber stanno cercando di raggiungere la redditività ‘svezzando’ poco a poco conducenti e clienti dai sussidi.
Alla Technology Conference Converge nel mese di giugno, Liu Zhen, vice presidente per la Strategia di Uber China, ha detto che il costo attuale per la società di una corsa è dell’80 per cento inferiore rispetto a un anno fa. Ma questo non è una sorpresa, per un settore in fase di maturazione e per cui le città in cui espandersi sono sempre meno.
A sua volta, Didi ha dichiarato il mese scorso di guadagnare solo nella metà delle città in cui opera.

Come per altre normative emanate del Partito Comunista Cinese, molto riguardo al recepimento e all’applicazione rimane vago e indeterminato: le città e le amministrazioni provinciali manterranno il potere sull’attuazione. E avranno quindi il potere di soffocare l’innovazione e aumentare i costi per le startup di ridesharing sia estere che nazionali.
Didi ha infatti detto in un comunicato la settimana scorsa: «Rivolgiamo un appello alle autorità locali affinchè adottino approcci orientati al mercato, che incoraggino l’innovazione e nuovi modelli di business».

 

Articolo in inglese: How China’s New Ridesharing Rules Choke Uber and Didi

 
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