Trump contro Amazon: non paga le tasse

Amazon e il suo fondatore Jeff Bezos sono spesso oggetto delle critiche di Donald Trump, che considera il gigante di internet un «monopolio esente da tasse». Il 16 agosto Trump ha di nuovo attaccato Amazon su Twitter, affermando che starebbe danneggiando i negozianti e alimentando la disoccupazione: «Amazon sta facendo un grosso danno ai venditori che pagano le tasse – ha scritto Trump – Paesi, città e Stati negli Usa vengono danneggiati, con molti posti di lavoro persi!».

In realtà, le tasse statali sulla vendita imposte sulla merce di Amazon hanno fruttato sempre più negli ultimi anni, ma l’opinione di Trump ha comunque un fondamento: il gigante di Bezos sta infatti arricchendo le casse statali solo con le vendite dirette e non con quelle che terze parti effettuano utilizzando il sito di Amazon.

E secondo la Cnbc, sono più della metà, gli oggetti venduti su Amazon da terze parti: questi venditori possono beneficiare delle strutture e del sistema di pagamento di Amazon, ma non viene loro richiesto di pagare tasse sulla vendita. E questo – fa notare Carl Davis, direttore della ricerca presso l’Istituto statunitense sulla Tassazione e la Politica Economica – è ancora un problema e costituisce un’importante perdita di entrate per diversi degli Stati degli Usa.

Alcuni Stati americani, però, hanno già iniziato a lavorare sui metodi per risolvere il problema. Il Minnesota e lo Stato di Washington, secondo Bloomberg Bna, sono i primi Stati ad aver messo in atto leggi che richiedono ai venditori online l’esazione di imposte dalle transazioni di terze parti. Ma i rivenditori online si comportano in modo perfettamente legale se non pagano la tassa statale sulle vendite, quando non hanno uno stabilimento in un certo Stato; e in base allo Stato in questione, negli Usa le tasse ammontano al 5-10 per cento del prezzo del prodotto, sommando quelle statali e quelle locali.

VUOTO NORMATIVO E SUSSIDI STATALI

Secondo gli esperti, per molti anni Amazon ha avuto un vantaggio competitivo sugli avversari poiché ha evitato di far pagare le tasse sulla vendita in molti Stati americani. Ed è in parte grazie alla sua strategia relativa a tasse e sussidi statali che Amazon è diventato il più grande e-commerce al mondo.

Per trarre vantaggio dal vuoto normativo sulle tasse, infatti, Amazon ha prima di tutto posto i suoi centri di distribuzione in Stati scarsamente popolati o privi di tassa sulle vendite; questo è uno dei modi con cui ha mantenuto prezzi bassi rispetto ai rivenditori locali e in genere ai rivenditori ‘offline’ come Wal-Mart e Best Buy: «Quando si permette alle compagnie che risiedono fuori dallo Stato di non imporre la tassa sulle vendite – osserva Davis – si sta proprio dando loro un vantaggio sui prezzi rispetto alle proprie aziende locali. Quindi questa è una cattiva politica tributaria e di sviluppo economico».

In uno studio del 2016, gli economisti dell’Università Statale dell’Ohio hanno osservato che dopo l’applicazione della ‘tassa Amazon’ i clienti online hanno diminuito i loro acquisti sul sito del 9,4 per cento. E per quanto riguarda i prodotti dal prezzo superiore ai 250 dollari, gli acquisti sono scesi del 29,1%.
«Se le tasse sulla vendita sono così rilevanti a questo stadio dello sviluppo di Amazon – si legge in uno studio dell’Institute for Local Self-Reliance, una Ong di ricerca – si può solo immaginare quanto questo vantaggio fornito dal governo abbia spinto la crescita di Amazon quando era solo un rivenditore di libri».

Secondo Davis, fino al 2011, Amazon era tassato solo in 5 Stati americani. Ma a partire da quell’anno, il gigante ha messo in atto un notevole cambio di strategia, passando dall’obiettivo principale di fornire un servizio di consegna rapido, al costruire strutture in tutti gli Stati Uniti. A fine 2016 Amazon era tassato in 29 Stati e ora lo è in ognuno degli Stati degli Usa.

Ad oggi ‘scansare’ le tasse non è più parte centrale della strategia commerciale di Amazon, quindi secondo Davis è esagerato dire che Amazon sia esente dalle tasse. Tuttavia il ricercatore riconosce che senza dubbio Amazon abbia ritardato il più possibile il suo contributo agli Stati americani, per ottenere un vantaggio competitivo su altri rivenditori.

In più, Amazon ha ricevuto sussidi pubblici del valore di più di 700 milioni di dollari per i suoi stabilimenti e data center costruiti negli Usa tra il 2000 e il 2014, secondo un articolo di Good Jobs First, una Ong di monitoraggio dei sussidi pubblici. In genere le aziende negoziano con gli Stati per ottenere questi fondi, promettendo loro di creare posti di lavoro; i sussidi a volte prendono la forma di esenzioni dalle tasse o di detrazioni fiscali.

POSTI DI LAVORO PERSI

I rivenditori tradizionali stanno perdendo spazio e soldi rispetto ai negozi online, a causa della tendenza dei consumatori a spostarsi verso lo shopping in rete. E all’interno di questa tendenza, Amazon è stato il leader.
I posti di lavoro nel settore del commercio sono diminuiti notevolmente quest’anno, in parte a causa dei rivenditori online. Grandi catene di distribuzione come J.C. Penny, Sears e Macy’s hanno annunciato il licenziamento di migliaia di impiegati e la chiusura di centinaia di negozi. I tagli del personale probabilmente aumenteranno ancora, mentre i rivenditori continuano a lottare tra cali di vendite e profitti e in alcuni casi il rischio di bancarotta.

Il settore della vendita al dettaglio dà lavoro a quasi l’11 per cento di tutta la forza lavoro statunitense, quindi – secondo gli esperti – l’impatto della perdita di posti di lavoro in quest’area potrebbe superare quello nel settore manifatturiero.

Articolo in inglese: Trump Targets Amazon Over Sales Tax and Retail Jobs

Traduzione di Vincenzo Cassano

Per approfondire:

http://epochtimes.it/news/nubi-scure-per-i-centri-commerciali-negli-usa/

 
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