Sciopero nazionale Ikea: sindacati aperti al dialogo

Le confederazioni sindacali hanno indetto, per sabato 11 luglio 2015, uno sciopero nazionale contro Ikea.

Motivo dello sciopero – il primo a livello nazionale – è l’intenzione della multinazionale svedese di introdurre un nuovo contratto integrativo, che modifichi le politiche di premio aziendale e le maggiorazioni domenicali e festive sugli stipendi dei lavoratori.

Una mobilitazione sulla scia di un precedente sciopero, indetto lo scorso giugno, che però non ha sortito gli effetti desiderati dai lavoratori. In vista delle prossime riunioni, nelle quali i sindacalisti sperano di poter aggiungere le proprie richieste al futuro contratto integrativo, Epoch Times ha intervistato Giuliana Mesina, segretaria nazionale del sindacato Filcams Cigl.

Ikea afferma che questo cambiamento nasce anche dall’esigenza di adattarsi al contesto economico attuale. Ciò significa che Ikea in Italia è in crisi?

«Ikea non è in crisi, ha visto una calo delle vendite come tutti. Certo i volumi di vendita in questi ultimi tre anni sono calati, questo è un dato oggettivo. Ikea è però un’azienda che finanzia la propria crescita, e infatti ha deciso per questo e il prossimo anno di continuare le proprie aperture [di nuovi negozi, ndr] e di finanziare lo sviluppo futuro anche tagliando i costi di staff, cioè i guadagni dei lavoratori. Quindi, da questo punto di vista, ci sembra un’affermazione discutibile.

«Risparmiando sui costi del personale, Ikea ha la possibilità di espandersi ulteriormente e aprire altri punti vendita in Italia. Noi siamo contenti, perché c’è nuovo lavoro, ma uno sviluppo finanziato con il taglio delle maggiorazioni domenicali, onestamente ci sembra un’operazione poco equa».

Ikea suggerisce forse un’intenzione di abbandonare l’Italia se non saranno accettate queste condizioni…

«No, assolutamente no. Non è mai stato detto e non penso che sia un pensiero di Ikea. È un argomento che molti tirano fuori. Chiedo scusa, ma rovesciando un po’ l’argomentazione, io dico a chi è portatore di questo pensiero che il sindacato non vuole indurre una multinazionale a uscire dal Paese. Ikea è arrivata 25 anni fa con un tipo di accordo che è stato aperto, un dialogo continuo con i lavoratori. E da allora sono passati da uno a 21 negozi. Non mi risulta che le rivendicazioni dei lavoratori abbiano frenato lo sviluppo di questa multinazionale. L’Italia è un mercato importante per le multinazionali. Ritengo che dove ci siano relazioni sindacali costruttive con un dialogo aperto questo aiuti lo sviluppo delle aziende».

Si potrebbe parlare di un peggioramento del rapporto tra azienda e lavoratori?

«Ikea, in base alle proprie indagini di opinione e ai propri sondaggi, afferma di essere una delle aziende più ambite. Noi continuiamo a testimoniare il fatto che ci sia sempre stato un dialogo che ha portato avanti il rapporto con i lavoratori, e non possiamo dire certo che sia una situazione da libro nero. Però abbiamo anche riscontrato come questo modello di partecipazione sia ormai più d’immagine che reale, perché un’azienda che disdice una contrattazione integrativa con un testo unilaterale, prende posizione e interrompe [il dialogo, ndr] in modo alquanto conflittuale.

«Lo abbiamo ritenuto un gesto politico. Non ce n’era bisogno: perché disdire 25 anni di contrattazione significa porre una spada di Damocle sul tavolo di un negoziato. Si decide insomma di cambiare, e non solo: in Ikea, ci sono oltre 70 per cento di lavoratori part-time, è iperflessibile, è disposta a far fare straordinari e a far lavorare la domenica in modo che i dipendenti possano integrare lo stipendio. Tutto questo avviene in situazioni in cui certamente c’è la disponibilità dei lavoratori. Perciò diciamo che parliamo di un’azienda che non è meglio né peggio delle altre».

Per entrare nel merito di quella che definite una decurtazione del premio domenicale, come commenta questa dichiarazione in un comunicato del 6 giugno da parte dell’azienda svedese: «Ikea non vuole cancellare le maggiorazioni festive e domenicali, ma solo discutere su come renderle più eque per tutti (oggi alcune sono al 130% mentre altre al 30%)»?

«Dico che questo non è esatto. Esiste una parte che ammonta circa al 10 per cento della popolazione aziendale che ha delle condizioni più favorevoli, ma non si tratta di 130 per cento. Lavorano nei negozi più vecchi e hanno accordi migliorativi rispetto al grosso dei lavoratori, che hanno il 70 percento di retribuzione. Ce ne sono poi alcuni al 50, 45, 40 per cento, quindi il sistema è molto differenziato.

«Tuttavia l’azienda ci propone di dare la maggiorazione domenicale e festiva in misura crescente, in base alle domeniche lavorate, a partire da un 30 per cento per arrivare fino al 70, in base al numero di domeniche raggiunte. Questo per noi è un taglio lineare delle maggiorazioni. Perché oggi per chi ha il 40, il 50 o anche il 70 per cento di maggiorazioni, lo vede abbassato al 30 per cento, per le prime domeniche in cui lavora, fino a raggiungere il 70 solo se lavora molte domeniche durante l’anno. Quindi ci sfugge dove stia l’equità, dato che tutti i lavoratori perdono qualcosa. Ci sono lavoratori che per raggiungere il 70 per cento ci mettono cinque anni. Per cui, dire oggi che vanno tagliate le percentuali domenicali, anche a questa gente, ci sembra davvero pretestuoso, soprattutto se si parla di equità».

Cosa implicava il premio fisso? Quale sarebbe la differenza con quello variabile e quali sarebbero gli indicatori variabili?

«Il premio aziendale deriva anch’esso da una contrattazione che è stata disdetta ed è l’aumento del salario fisso che può andare dagli 80 ai 100 euro che sta nella parte alta della busta paga. Quindi è un elemento fisso della retribuzione, che incide sugli statuti retributivi e contributivi, come se fosse una parte di salario. Quando l’azienda chiede di prendere un elemento fisso, che è ormai un diritto acquisito, e renderlo variabile, significa che da lì in poi questo importo lo si percepirà solo se gli indicatori di produttività che Ikea vuole stabilire saranno positivi.

«Gli indicatori, per esempio, potrebbero essere le vendite, il margine, la produttività. Se si raggiungono questi obiettivi che Ikea stabilisce, il salario lo posso prendere tutto o in parte, in base al raggiungimento di quest’ultimi. Ma è diverso da avere un salario fisso che ho tutti i mesi e che soprattutto, faccio notare, incide anche su parametri legati alla pensione. Stiamo parlando di un 70 per cento di lavoratori part-time: questo significa incidere sulle loro pensioni di un domani. Quindi siamo davanti a un’operazione d’impoverimento netto del lavoratore».

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Riguardo al premio aziendale, di fatto è un modello già applicato quello del premio variabile

«Si diciamo che vengono utilizzati [i premi, ndr], però vengono di solito contrattati. Ikea vuole sottoporre un nuovo modello, che già usano a livello globale: un bonus, sul quale noi abbiamo detto di essere disponibili a discutere. Vorremo avere un ruolo partecipativo alla costruzione di questo premio».

Come commenta la dichiarazione di Ikea secondo cui «i contenuti dell’attuale contratto integrativo continueranno a essere regolarmente applicati, vista la prosecuzione delle trattative, per le quali sono già state fissate le date dei due prossimi incontri»?

«Quando si disdice un accordo, ci sono almeno tre mesi prima che cessi l’applicazione di ciò che questo prevede, sia in termini economici che normativi. Questo significa che abbiamo un timing molto stringente; il primo settembre, se non sarà raggiunto un nuovo accordo integrativo con Ikea, non sappiamo cosa succederà. Perché l’accordo è stato disdettato unilateralmente dall’azienda, sebbene noi avessimo già una trattiva per rinnovare l’accordo.

«A fronte della disdetta c’è un messaggio forte. Non dico ricattatorio, ma certamente non si pone in un clima sereno, perché c’è la paura di cosa succederà il primo settembre. Ci saranno degli incontri, prima della fine di luglio, in cui affronteremo l’intransigenza dell’azienda, e cercheremo di capire se le decisioni aziendali potranno essere riviste così da cercare una strada comune. Questo senza dubbio».

Intervista adattata per questioni di brevità e chiarezza.

 
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