Rivolta dei cinesi a Sesto Fiorentino, spunta lo zampino della criminalità

Quella che si è vista a Sesto Fiorentino è una scena rara, in Italia. Una minoranza normalmente poco rumorosa, anche troppo silente, come quella cinese, si è improvvisamente ‘ribellata’: centinaia di persone si sono asserragliate nel loro complesso di capannoni e hanno lanciato oggetti alla polizia. C’è stato anche qualche corpo a corpo, e, pare, un morso.

La causa scatenante sarebbero stati i controlli delle autorità, in un momento in cui i cinesi si sentivano già abbastanza oppressi dalle ondate di furti che dichiarano di subire. Il presidente della Regione Toscana Enrico Rossi è critico: «Se ci sono eccessi nei controlli, c’è il modo giusto per rispondere. Ovvero un esposto. Se qualcuno non lo sa che esiste tale possibilità bisogna fare educazione perché non ci si fa giustizia da soli».

Da sempre nazione ricca e florida, la Cina di recente è florida solo in quanto potenza internazionale e non più dal punto di vista culturale o sociale, contrariamente a quanto avveniva nell’antichità. ‘Farsi giustizia da soli’ è una soluzione sempre più comune in una Cina in cui l’assenza di Stato nell’ambito della Giustizia (e, piuttosto, la sua eccessiva presenza nell’ambito dell’ingiustizia) ha portato i cittadini a dare per scontato che non si ottiene nulla perseguendo vie legali, come evidenziato dai numerosi casi in cui gli utenti dei social media hanno rintracciato – sostituendo la polizia – i colpevoli di vari misfatti; o dai casi in cui gli abitanti dei villaggi si sono coalizzati contro le espropriazioni forzate di terreni e abitazioni, da parte dello Stato. «La reazione di una rivolta è ingiustificata – commenta però Rossi – e con quelle dimensioni mi fa supporre che fosse preparata. Sono supposizioni davanti a una reazione così forte e ampia che, a partire da un caso, ha costruito scontri, violenze e sassaiole fino a tarda notte».

«Se dovessi convocare 30 persone qui davanti in due ore non ci riuscirei». Figuriamoci centinaia. Certo, c’è da dire che gli orientali tendono a essere molto più organizzati dei popoli d’Occidente. Ma quello a cui Rossi allude, affermandolo esplicitamente, anche se sotto forma di domanda, è che alle spalle vi sia la criminalità.

C’è chi invece non fa domande, e lo dà per scontato. Per Gianni Da Valle, direttore della Laogai Research Foundation (che studia i campi di lavoro cinesi) il quadro è cristallino: «Dietro questi capannoni, che sono dei veri lager cinesi qui in Italia, c’è un vero mercato della contraffazione».
Come fanno i cinesi – si chiede retoricamente Da Valle – ad aprire così facilmente attività qui in Italia, e perché non le aprono direttamente in Cina? È la criminalità organizzata, sostiene, che fornisce loro i fondi, pagando i costi per aprire l’attività, l’affitto e vari costi di partenza, assicurandosi poi un pizzo sui futuri guadagni. Le relazioni della Direzione Nazionale Antimafia denunciano più volte, infatti, il legame tra criminalità cinese e immigrazione, che porta anche allo sfruttamento della prostituzione e a varie truffe nei confronti del fisco.

Questi migranti cinesi sarebbero quindi «vittime della povertà», indotte dai criminali a cercare un guadagno facile all’estero, e spesso disonesto, considerando la diffusa evasione. La situazione, inoltre, non è affatto malvista dal governo cinese, che secondo Da Valle intende «colonizzare l’Europa come ha fatto con l’Africa». Sulla stessa linea l’opinione dei servizi segreti italiani e della Guardia di Finanza, che hanno più volte denunciato il tentativo da parte della Cina di prendere il controllo di settori strategici del Belpaese. «Una volta subentrati – denuncia Da Valle – questi applicano le loro leggi».
In effetti la Cina, attraverso vari mezzi, specialmente economici e informatici, sta tenendo in scacco Europa e Stati Uniti, rendendoli da essa dipendenti. Gruppi imprenditoriali cinesi, statali o comunque legati ai funzionari del Partito Comunista, possiedono il controllo di varie importanti aziende italiane, come Pirelli e Olio Sagra, tra le tante.

Che la criminalità metta il naso nel fenomeno dell’immigrazione non è certo un caso che riguarda solo i cinesi, ma è piuttosto un fatto comune: basti pensare alla situazione degli italiani stessi in America all’inizio del secolo scorso, e quindi alla criminalità italiana di stampo mafioso. Tuttavia il governo cinese sembra manipolare la situazione criminale a suo vantaggio, per la colonizzazione economica e forse persino per trafficare denaro derivante dal lavoro in nero, come nel caso delle ingenti somme di denaro che lasciano l’Italia per dirigersi in Cina, bypassando i controlli, attraverso le agenzie money-to-money. I soldi, assicura Da Valle, vengono trasferiti in Cina «per interesse del Partito Comunista Cinese o anche della stessa mafia cinese». Un caso specifico, per il quale si è mossa la Giustizia italiana, è quello della Bank of China, che, secondo le accuse, avrebbe agevolato il riciclaggio di 2,2 miliardi di euro dal 2006 al 2010, mentre in totale, senza che ci sia necessariamente un legame con la Banca, sarebbero ben 45 i miliardi evasi, oltre a 4,5 miliardi spariti nel nulla. L’iter giudiziario è ancora nella fase preliminare.

Un ulteriore problema è costituito dalle merci vendute nei negozi cinesi, che provengono generalmente dal lavoro forzato. A questo proposito la Laogai Research Foundation denuncia il congelamento dell’iter legislativo della proposta di legge Disposizioni concernenti il divieto di produzione, importazione e commercio di merci prodotte mediante l’impiego di manodopera forzata e in schiavitù, presentata nel 2010 con 160 firme provenienti da tutti gli schieramenti politici. Il provvedimento, ispirato e sostenuto dalla Laogai, avrebbe ostacolato il commercio dei prodotti provenienti dai campi di lavoro. Infatti queste merci a basso costo, prodotte in situazioni eticamente inaccettabili e anche in assenza di standard sanitari adeguati, creano difficoltà anche al made in Italy, talvolta persino mischiandosi con esso senza che il consumatore lo sappia.

È quindi evidente come, dietro un’inaspettata rivolta, si intreccino una serie di situazioni e attori: delle persone economicamente svantaggiate, esuli di un Paese governato da un regime oppressivo che ne ha distrutto la cultura tradizionale, dei criminali che li sfruttano, e un regime astuto come un serpente, che trae vantaggio da entrambi. Se non si può trattare con i criminali, o con il Partito Comunista Cinese (chi ci ha provato ne ha rimediato solo morsi e avvelenamenti), si può però cercare – consiglia Rossi – di fare educazione civica, e di integrare i cinesi nella vita sociale e legale del Paese. A questo riguardo, ci sono anche esempi incoraggianti tra i giovani cinesi, che chiunque può notare nelle città d’Italia.

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