La responsabilità mediatica nel sistema democratico

I politici passano gran parte del tempo a lamentarsi dei media. E a tutti ‘piace’ quando i giornalisti – sia sui giornali, alla televisione che sul web – trattano con scetticismo quello che dicono i politici, perché significa che i mezzi di informazione stanno facendo il loro lavoro.

Ma oggi non accade così spesso quanto dovrebbe: i media sono meno obbiettivi, più ideologici, e molto più spettacolarizzati di una volta. L’apparenza può essere accattivante, ma è solo una sfacciata e incessante auto-sponsorizzazione. Diversi giornalisti non vogliono affatto trasmettere notizie: vogliono partecipare attivamente e influenzare la politica. Vedono la politica come uno sport senza esclusione di colpi, in cui spesso esaltare le divergenze tra i partecipanti.

Come ha detto un osservatore, i media sono attratti da «superficialità, sensazionalismo, scandalo e squallore». Non aspettano altro che approfittare delle divergenze di opinione e, fomentandole, le trasformano in fattori di discordia. Tutto questo rende molto più ardua la raccolta di consensi, che sarebbe il compito principale del processo democratico.

Se da decenni il settore dell’informazione va verso questa direzione, c’è un motivo: tutti questi cambiamenti sono stati ben accolti dal pubblico. Hanno attirato lettori, spettatori e clic. E hanno incoraggiato i consumatori a prestare attenzione solo alle fonti che riflettono e trasmettono il loro punto di vista.

È normale che chi è cresciuto ai tempi di Edward R. Murrow e Walter Cronkite, continui a pensare che siano stati ottimi giornalisti. Ma quello che manca non è la loro voce autorevole; piuttosto, si sente la mancanza dello spirito che animava la loro professione al tempo, quando i mezzi di informazione sembravano possedere quel senso di responsabilità in grado di far funzionare la democrazia rappresentativa. Una volta, giornalisti si impregnavano nel loro lavoro con la coscienza di essere parte di un servizio pubblico.

Ci sono ancora eccellenti giornalisti che fanno del loro meglio per servire sia la loro professione sia il loro Paese, e ogni giorno lottano per dare un senso a eventi estremamente complessi. Sono persone che comprendono – e lo stesso sarebbe auspicabile per i loro colleghi – che la democrazia dovrebbe esigere dal giornalismo un incessante miglioramento. Se fatto correttamente, il giornalismo può superare le differenze, aiutare il consenso a emergere, migliorare la conoscenza e il giudizio degli elettori, e nell’insieme incrementare l’efficienza dei funzionari pubblici e del governo.

In sostanza, il processo democratico consiste nel superare il disaccordo, e questo è praticamente impossibile senza una solida base di informazioni e di analisi.

Governare bene è molto difficile. E un buon giornalismo può mantenere un governo aperto e onesto, che serva non solo gli elettori, ma anche quei politici che stanno cercando di risolvere i problemi del Paese. I giornalisti possono e devono essere come dei cani da guardia con un occhio vigile sui politici, su quello che fanno e su quello che dicono. E anche su quello che non fanno o non dicono. Non dovrebbero servire solo l’élite, ma anche gli svantaggiati e i poveri di una società.

L’indipendenza della nostra stampa è stata una conquista difficile, e sostenerla è di vitale importanza. Le persone devono poter disporre di fonti su cui possono contare, perché il nostro sistema possa funzionare. La nostra democrazia ha bisogno di cittadini ben informati che possano prendere decisioni basate su fatti riguardanti sia la politica sia i politici.

Questo significa che il modello giornalistico, apparentemente passato di moda – reporter che erano piuttosto obbiettivi, indipendenti da gruppi esterni e dai loro stessi editori è senza dubbio un fattore cruciale per la forma di governo rappresentativo.

Si tratta di un quadro alquanto ideale, soprattutto in questi tempi di crisi economica anche nel mondo dei media. Ma non sembra eccessivo sperare che, per il suo futuro, questo tipo di professione prenda sul serio il proprio ruolo di leadership nel promuovere il bene pubblico e di far funzionare correttamente la democrazia rappresentativa.


Lee Hamilton è direttore del Center on Congress all’Università dell’Indiana e professore alla IU School of Public and Environmental Affairs. É stato membro della Camera dei Rappresentanti per 34 anni ed è autore di due libri.

Quelle espresse in questo articolo sono le opinioni dell’autore e non riflettono necessariamente il punto di vista di Epoch Times.

Articolo in inglese: The Media’s Responsibility to Our Democracy

Traduzione di Massimo Marcon

 
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