Cina, il vero motivo del boom degli investimenti esteri

Nel corso degli ultimi 20 anni gli investimenti all’estero hanno costituito la parte principale della strategia economica della Cina: sono cresciuti molto velocemente, superando i 111 miliardi di euro nel 2015.

A metà aprile 2016, dalla Cina sono usciti già 99 miliardi di euro in investimenti esteri. Mentre per gli investitori stranieri la Cina non è più una meta attraente, i cinesi vedono nell’investimento estero un rifugio sicuro, e non solo un mezzo per intascare rendimenti elevati.
La vera ragione dietro la fuga dei capitali cinesi è, quindi, il tentativo di evitare o ridurre al minimo le rilevanti perdite causate dalla recessione economica cinese.  

GLI INVESTITORI LASCIANO LA CINA   

Dal 2009 la stragrande maggioranza degli investitori stranieri in Cina stanno disinvestendo e chiudendo. Tra il 2008 e il 2012, nella sola città di Dongguan, 72 mila imprese manifatturiere hanno chiuso i battenti. Nel 2014 hanno chiuso più di 4 mila imprese e, solo nel mese di ottobre 2015, oltre 2 mila aziende aperte a Taiwan, vicino a Dongguan, hanno lasciato senza lavoro circa cinque milioni di persone.

Gli investimenti esteri sono stati tagliati con modalità diverse, ma tutte riconducibili a un unico motivo: la redditività di quegli stabilimenti non era più sufficiente. Le Camere di Commercio degli Stati Uniti e d’Europa presenti in Cina hanno pubblicato alcune relazioni in cui lamentano il deterioramento del clima degli investimenti nel Paese asiatico.  
Gli Stati Uniti hanno denunciato così i numerosi ostacoli posti dalla Cina nei confronti delle aziende statunitensi presenti nel Paese, come ad esempio l’avvio di una serie di indagini contro le società straniere e l’emanazione di leggi che limitano l’uso di tecnologie non cinesi, cosa che ha gravemente danneggiato la fiducia delle società estere. 
Entrambe le relazioni forniscono un lungo elenco di dati a dimostrazione di questo scenario.  

A sostegno di queste denunce, inoltre, quattro prestigiose aziende manifatturiere internazionali hanno annunciato l’intenzione di uscire dalla Cina a fine maggio. Si tratta della Chicheng, il maggiore fornitore di cover metalliche per telefoni cellulari, della Dongguan Xinda, il produttore delle mascotte usate durante le Olimpiadi di Londra, della Triumph International, una nota azienda tedesca con sede a Yancheng, e di una delle filiali della Philips con sede a Shenzhen.

INVESTIMENTI CINESI ALL’ESTERO

La maggior parte degli investimenti cinesi all’estero sono fatti da imprese statali. Anche se, sembra che il 90 per cento di questi investimenti abbia subito ingenti perdite, rientra nelle strategie del regime la volontà di porre una soluzione definitiva all’elevata dipendenza della Cina da risorse esterne.

Il capitale privato cinese è stato investito anche in progetti di sviluppo e in investimenti considerevoli in altri Paesi. Nel 2011 le imprese private rappresentavano solo l’11 per cento degli investimenti cinesi all’estero. Ma nel 2015 hanno raggiunto il 41,2 per cento. Tuttavia, dando un’occhiata a questi progetti e ai Paesi dove sono stati fatti gli investimenti, è evidente che lo scopo principale di portare all’estero il capitale privato cinese è principalmente quello di avere una copertura, e non di fare un investimento industriale.

Secondo il China Foreign Investment Market Report – 2015 Review, gli investimenti all’estero della Cina nel settore immobiliare nel 2015 sono cresciuti del 41,5 per cento, raggiungendo il livello record di 18 miliardi di euro. La Malesia ha assorbito la maggior parte del capitale per lo sviluppo del territorio dalla Cina, con circa 1,8 miliardi di euro, seguita poi da Hong Kong, Stati Uniti, Australia e Singapore.

Nel mese di aprile di quest’anno il Rhodium Group e il Comitato Nazionale per le relazioni Stati Uniti-Cina hanno rilasciato un aggiornamento congiunto del rapporto ‘New Neighbors 2016’. Il documento rivela che, a partire dalla fine del 2015, il numero di imprese cinesi create negli Stati Uniti supera le 1.900 unità, distribuite in 362 dei 435 distretti, impiegano a tempo pieno circa 90 mila dipendenti. Le principali aree di investimento sono: l’immobiliare, il settore finanziario, la tecnologia, l’industria del cinema, dello spettacolo e dell’energia.

Il rapporto non ha menzionato l’esistenza di un gran numero di investimenti effettuati nel programma EB-5 Immigration Investor. Ad esempio, nel 2014 sono stati avviati i progetti denominati New York Observation Wheel, che ha ricevuto un finanziamento totale di 340 milioni di euro e ha visto la partecipazione di centinaia di cinesi.  

Quindi, gli Stati Uniti attirano un alto numero di capitali cinesi grazie ai flussi attivati con il programma EB-5 Immigration Investor. Entro la fine del terzo trimestre 2015, l’Uscis – United States Citizenship and Immigration Services- aveva approvato 6.498 casi rientranti nell’EB-5, la stragrande maggioranza degli investitori convolti era cinese.

Possiamo quindi concludere che il vero scopo della movimentazione dei capitali cinesi è quello di mettere in atto una copertura. Se i punti finora esposti non riescono a essere sufficienti, ecco un’altra notizia al riguardo che è stata pubblicata di recente: le importazioni della Cina da Hong Kong nel mese di maggio sono aumentate del 242 per cento. Chi è a conoscenza delle attività di riciclaggio di denaro in Cina, sa perfettamente che quest’attività di import-export è del tutto fittizia.

Il trasferimento di attività verso l’estero causa perdite nel mercato dei cambi e questo potrebbe innescare problemi enormi per l’economia cinese. Questo porta a domandarsi se sia in realtà il governo cinese a incoraggiare direttamente gli investimenti all’estero.

Il governo cinese certamente non vorrebbe simili deflussi di capitali privati su larga scala. Per il settore finanziario la rapida perdita di riserve di valuta estera comporterebbe forti rischi per i principali mercati, tra cui quello delle azioni, degli immobili, dei trust, dei fondi di private equity e così via. Ad aumentare sarebbero anche i rischi per lo stesso settore finanziario cinese.

Ma esistono diversi motivi per cui il governo cinese non può imporre restrizioni alle uscite di capitali. In primo luogo, Pechino sta ancora facendo enormi sforzi per attirare investimenti, quindi non si può vietare in alcun modo l’uscita dei capitali dal Paese. In secondo luogo, coloro che hanno enormi quantità di denaro da trasferire sono in qualche modo legati al Partito Comunista Cinese. Così, la politica di mercato può imporre restrizioni solo in altre aree, può ad esempio imporre tasse sulle transazioni finanziarie per stabilizzare la volatilità dei mercati dei capitali e prevenire eventuali rischi finanziari.

In sintesi, il denaro degli investimenti cinesi sta inondando il mondo invece di alimentare l’economia cinese, la Cina non sta facendo nulla di ciò che aveva preannunciato sui media occidentali. Molta comunque è l’amarezza e la frustrazione che si cela dietro la strategia di Pechino di ‘rivolgersi all’estero’.  

He Qinglian, economista e autore cinese di primo piano, è un analista economico e sociale. Ha scritto ‘China’s Pitfalls – Insidie Cinesi’, sulla corruzione nella riforma economica della Cina degli anni ’90 e ‘The Fog of Censorship: Media Control in China’, in cui tratta della manipolazione e restrizione della stampa.

Articolo in ingleseWhat’s Really Driving China’s Overseas Investment Boom

 

 
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