Quando il pomodoro ‘Made in Italy’ viene dai campi di lavoro cinesi

‘Aziende italiane collaboravano con i campi di concentramento nazisti’. Una tale affermazione genererebbe, giustamente, scandalo. Eppure, oggi sappiamo che molte aziende italiane collaborano con i campi di lavoro cinesi, dove migliaia e migliaia di prigionieri di coscienza e dissidenti politici vengono regolarmente torturati, uccisi, e privati dei loro organi.

Per legge questi campi di lavoro (o laogai) devono mantenersi economicamente indipendenti, quindi i direttori dei campi sono diventati degli imprenditori. Lo sa bene Gianni Taeshin Da Valle, direttore della Laogai Research Foundation (Lrf) Italia, che da anni si occupa dei lager cinesi: la Lrf ha infatti denunciato più volte la collaborazione tra aziende italiane e campi di lavoro e secondo Da Valle molti politici ne sono al corrente, ma «preferiscono tacere per interessi politici ed economici».
Nel 2012 la Lrf aveva documentato un caso di collaborazione tra un’importante azienda italiana produttrice di pomodoro e un campo di lavoro cinese, ma l’incontro con la commissione Contraffazioni del Parlamento era stato secretato e da lì non si è mai più mosso nulla.

Ai tempi di Mao i campi di lavoro producevano prodotti a uso interno, mentre oggi sono diventati un business tramite le esportazioni. L’Italia importa sempre più pomodoro cinese: nel 2015 Coldiretti rilevava un aumento del 520 per cento delle importazioni di concentrato di pomodoro dalla Cina, per un ammontare di circa il 10 per cento della produzione nazionale. «Dalla Cina – riporta un comunicato – si sta assistendo a un crescendo di navi che sbarcano fusti di oltre 200 chili di peso con concentrato di pomodoro da rilavorare e confezionare come italiano, poiché nei contenitori al dettaglio è obbligatorio indicare solo il luogo di confezionamento, ma non quello di coltivazione del pomodoro».

Oltre all’enorme problema etico legato ai campi di lavoro (dove lavorano e muoiono, in condizioni disumane, persone che in maggioranza non hanno commesso alcun crimine), gli standard sanitari in Cina sono molto scarsi già in condizioni normali, e sono persino più bassi nei laogai.

La popolazione principale dei campi di lavoro cinesi è costituita dai praticanti del Falun Gong, una disciplina spirituale che si ispira ai principi di ‘verità, compassione e tolleranza’, messa al bando nel 1999 per via della sua enorme diffusione e per le manie di potere e controllo dell’allora leader del Partito Comunista Cinese Jiang Zemin.
I praticanti del Falun Gong che sono riusciti a fuggire dalla Cina hanno raccontato nel dettaglio la situazione dei campi di lavoro. Oltre alle torture continue che subiscono, i detenuti (che, oltre ai praticanti, contano altri tipi di prigionieri religiosi o politici, ma anche delinquenti comuni) sono costretti a lavorare numerose ore al giorno, non hanno alcuna possibilità di lavarsi e sono costretti a vivere in condizioni igienico sanitarie drammatiche, con ovvie conseguenze sui prodotti che lavorano.

A onor del vero, molto del pomodoro importato dalla Cina non dovrebbe finire sulle tavole degli italiani, ma sarebbe destinato a ulteriori trasformazioni e successive esportazioni: per esempio può diventare ketchup, o venire esportato in Africa.
Tuttavia sarebbe ingenuo escludere del tutto che possa anche finire sulle nostre tavole. Per esempio Antonino Russo (titolare della AR Industrie Alimentari, il più importante produttore italiano di conserve di pomodoro) nel febbraio 2013 è stato condannato in primo grado a un anno di reclusione e a seimila euro di multa dal tribunale di Nocera Inferiore perché importava concentrato di pomodoro cinese e lo annacquava in Italia facendolo quindi passare per Made in Italy, approfittando del fatto che sull’etichetta si può indicare il Paese in cui il prodotto ha subito l’ultima sostanziale trasformazione, tralasciando il Paese di produzione e/o lavorazione di ognuno dei semilavorati.

Non è dunque escluso che simili maneggi avvengano anche da parte di altre aziende. Inoltre, senza nemmeno il bisogno di sforare nell’illegalità, se il pomodoro cinese viene trasformato in qualsiasi prodotto derivato, allora risulterà un regolarissimo Made in Italy. E a livello europeo non ci sono nemmeno leggi che vietano l’importazione di prodotti derivanti da campi di lavoro, spiega Da Valle.

Un caso di ‘collaborazione’ italiana con i campi è quello della Zhongji Tomato Corporation, che ha l’esclusiva sulla fornitura di pomodori coltivati per 130 chilometri quadrati di campi appartenenti alle prigioni di Fangcaohu e Xinhu, racconta il direttore della Lrf Italia: in questi campi ci sono macchinari italiani e le loro importazioni arrivano a Salerno attraverso la ditta di export Tianjin Charlton.
«In Cina in nome del lucro e dell’utile è lecito inquinare l’aria, le terre i mari e i fiumi. Nei campi cinesi viene distribuito oltre il 30 per cento dei fertilizzanti azotati utilizzati nel mondo (fonte Greenpeace). Inoltre vengono utilizzati fitofarmaci e pesticidi altamente tossici», spiega Da Valle.

Non è superfluo aggiungere che la popolazione dei campi viene anche usata come banca d’organi vivente: uccisi a pagamento a scopo di prelievo dei loro organi vitali, che poi vengono trapiantati ai ricchi – non solo cinesi, ma di tutto il mondo – non intenzionati a rispettare le liste di attesa. Un crimine definito da David Matas, avvocato dei diritti umani candidato al Nobel per la Pace nel 2010, «una nuova forma di malvagità su questo pianeta».

«Una volta per tutte chiediamoci da dove nasce la tanto decantata ‘competitività cinese’ – conclude Da Valle – Nasce principalmente dal lavoro forzato del laogai e dallo sfruttamento umano nelle fabbriche lager». Ed è imperativo che l’Italia non ne sia complice.

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