Propaganda e disinformazione, la guerra delle notizie

Settembre 2015: un uomo in uniforme da soldato statunitense appare in video mentre, con un fucile di fabbricazione russa Saiga 401K, prende la mira e spara tre colpi contro una copia del Corano.

Il video ha girato per gran parte delle comunità musulmane in Russia, scatenando l’ira contro gli Stati Uniti e suoi soldati e facendo leva sui più profondi sentimenti anti-americani. In modo analogo a quando il pastore della Florida Terry Jones aveva bruciato il Corano nel 2011, facendo esplodere una rivolta in Afghanistan in cui rimasero uccise undici persone.

Ma quest’ultimo video è un falso. Secondo un’inchiesta della Bbc, infatti, era opera dell’Ufficio disinformazione della Russia (l’Ente per gli Studi su Internet), noto anche come la ‘Fabbrica della provocazione’.

Altre simili notizie false, create con l’obiettivo di diffamare gli Stati Uniti, sono state recentemente fatte risalire alla Fabbrica della provocazione: il New York Times Magazine ha scoperto che questo ufficio già in passato aveva inventato diverse false notizie, come quella secondo cui una fabbrica della Louisiana sarebbe stata colpevole di emissioni tossiche nell’atmosfera, o un’altra che annunciava l’esplosione di un’epidemia di Ebola ad Atlanta.

E anche nel video in cui il soldato americano prova un fucile russo sparando a una copia del Corano, a un’attenta osservazione l’uniforme e l’elmetto del ‘soldato’ non risultano autentici.

Questo genere di (dis)informazione sta diventando uno strumento sempre più di largo uso da parte di diverse nazioni nel mondo; l’obiettivo è usare le notizie come armi per attaccare i nemici, e come strumenti di propaganda per tenere in piedi il regime. E gli Stati Uniti potrebbero presto trovarsi a dover rispondere ad altre ‘notizie’ di questo genere.

Per questo, il 16 maggio il senatore repubblicano Rob Portman e il senatore democratico Christopher Murphy, hanno presentato al Senato Usa un apposito disegno di legge bipartisan (il Countering Information Warfare Act of 2016). Una delle assunzioni esplicite di questa proposta di legge è che vi siano governi (come quello russo e quello cinese) che «usano la disinformazione e altri strumenti di propaganda per minare la sicurezza nazionale degli Stati Uniti, dei loro alleati chiave e dei loro partner».

Il senatore Portman aveva sottolineato l’importanza della legge il 12 maggio al Consiglio Atlantico, affermando che «la Cina spende ogni anno miliardi per la sua propaganda estera, mentre RT, un canale di proprietà del regime russo che trasmette notizie 24 ore su 24 sette giorni su sette, risulta spendere ogni anno 400 milioni di dollari solo per il suo ufficio di Washington».

Il professor Ronald J. Rychlak della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università del Mississippi, sostiene che il danno causato dalla disinformazione non possa essere sottovalutato, e che la propaganda sia una grave minaccia alla democrazia.

Il professore, insieme al tenente generale Ion Mihai Pacepa (l’ufficiale sovietico di più alto grado mai passato agli Stati Uniti) ha scritto il libro ‘Disinformazione’, in cui gli autori analizzano numerose false notizie diffuse dai sovietici oggi diventate di dominio pubblico.

«Viviamo in una società basata sulla libera informazione, sul fatto che un popolo creda alle informazioni che riceve, e sulla base delle quali possa effettuare le proprie scelte»; Rychlak continua osservando come sia «importante che le persone si rendano conto di questo e che, in qualche modo, ci si riesca a opporre; perché, diffondendo notizie del genere, è possibile disgregare un intero sistema dal suo interno.

Anche il video propagandistico che dichiarava di mostrare un praticante del Falun Gong che si dava fuoco in piazza Tienanmen nel 2001, è su questa linea: il premiato documentario ‘Fuoco Falso’ ha trovato numerose lacune nella notizia, senza considerare la parte del video in cui si vede un poliziotto cinese uccidere una delle presunte vittime con un colpo dietro la testa.

La disinformazione è un tipo di propaganda particolarmente subdolo: uno dei metodi è fabbricare notizie dal nulla, spesso con una piccola parte di verità ma con delle conclusioni false; un altro è realizzare delle messe in scena, come il video falso del soldato che spara al Corano, e poi diffonderne le riprese o farne un reportage targettizzando una specifica parte della popolazione.

Ma la tattica non si ferma alla diffusione di notizie false: diversamente dalla propaganda tradizionale, di solito sostenuta dai portavoce di regime, il fattore chiave della disinformazione è che quest’ultima ha il potere di fare in modo che a ‘fare propaganda’ siano le agenzie di stampa e i media in generale. Con la conseguenza che, una volta diffuse, le false notizie iniziano a vivere di vita propria e, appena un’agenzia di stampa o un esperto le riprendono, la nazione che le ha create può utilizzarle come fonte autorevole a supporto dell’attacco al Paese avversario; con magari qualche rappresentante del governo che, sulla base della falsa notizia, rilascia una dichiarazione pubblica di condanna, così che poi altre agenzie riprendano la stessa notizia.

Il passo successivo è che, dopo che l’opinione pubblica si infiamma, i leader della nazione attaccata siano costretti a rispondere; e col sommarsi dei servizi e delle dichiarazioni, la falsa notizia iniziale viene sempre più seppellita: l’obiettivo finale è fare in modo che la falsa notizia diventi una nozione universalmente acquisita.

Per Rychlak, arrivati a questo punto la disinformazione «è diventata parte della nostra cultura, del nostro bagaglio di conoscenze indiscusse, è per questo che la disinformazione è uno strumento tanto potente per i nemici di una nazione».

La Cina si è servita di questo tipo di tattica per giustificare numerose violazioni dei diritti umani.
Il 23 gennaio 2001, ad esempio, cinque persone si sono date fuoco in piazza Tienanmen a Pechino. Le agenzie di regime di proprietà dello Stato hanno dichiarato che si trattava di praticanti del Falun Gong, e questo incidente è stato usato dalle autorità cinesi per giustificare la persecuzione di questa pratica spirituale: una persecuzione che era iniziata due anni prima, ma che fino ad allora aveva riscosso poco consenso da parte del popolo cinese.

L’episodio era stato rapidamente smascherato come una messa in scena del regime cinese: il Washington Post, dopo aver indagato approfonditamente su due degli ‘auto-immolati’, nel febbraio 2001 pubblicava un servizio in cui dichiarava che nessuno li aveva mai visti praticare il Falun Gong. Il programma False Fire, poi, aveva fatto il resto, individuando le numerose lacune della notizia (fra cui la parte di filmato in cui si vede un poliziotto cinese uccidere una delle cosiddette ‘vittime’ con un colpo alla nuca).

Ma, nonostante la falsa notizia sia stata smascherata, ancora oggi ci sono delle agenzie di stampa che, citandola e ripetendo le falsità del regime cinese, mantengono questa disinformazione in vita; e di conseguenza – come osserva il Falun Dafa Information Centre – questa notizia ha continuato a essere sfruttata dal governo cinese come «pretesto che giustifica il sistematico uso della forza e l’imprigionamento senza processo ai danni dei praticanti del Falun Gong, portando a un’impennata delle morti a causa di tortura e maltrattamenti di queste persone illegalmente detenute».

Ma la Cina ha fatto pesante uso della disinformazione anche contro gli Stati Uniti, con l’obiettivo di minarne la posizione di influenza sul piano internazionale. La Testata digitale The Diplomat, nel dicembre 2015 ha infatti pubblicato un servizio secondo cui il Partito Comunista Cinese impiega in questo senso diversi sistemi, fra i quali: la dottrina della sua ‘Triplice Guerra’ (guerra legale, psicologica e mediatica), operazioni militari di portata minore e realizzate sotto il comando del Dipartimento politico generale, e operazioni di spionaggio gestite dal Secondo Dipartimento.

La strategia della Triplice Guerra permette al regime cinese di creare un’aura di legittimità attorno alle sue occupazioni territoriali nel sud del Mare della Cina e ad altre operazioni militari; e, al tempo stesso, di screditare le iniziative militari delle altre nazioni.

Secondo un think tank specializzato sull’area Asia e Pacifico e denominato Project 2049 Institute, la legge dei senatori Portman e Murphy specificamente emanata per rispondere alla disinformazione cinese, sarebbe un primo passo importante per l’America: «il Pentagono è al corrente delle crescenti capacità di guerra mediatica cinesi da oltre dieci anni, ma ciononostante non c’è nemmeno un ente governativo statunitense che si sia preso in carico lo sviluppo di una strategia organica in risposta».

Nella legge si afferma, d’altra parte, che la Russia fa sempre più ricorso alla disinformazione per perseguire i propri «obiettivi politici, economici e militari in Ucraina, Moldova, nei Balcani e in tutta l’Europa centro-orientale».

La nuova legge per la contro-informazione, è indirizzata in particolare alle campagne di disinformazione che mettono in pericolo la sicurezza nazionale degli Usa e dei loro alleati; ma allo stesso tempo mira a «tutelare e promuovere una stampa libera, forte e indipendente in quei Paesi che sono vulnerabili alle notizie di disinformazione provenienti dall’estero».

Se questa legge sarà approvata, verrà creato presso il ministero degli Esteri Usa un nuovo ufficio, che avrà il compito di identificare le attività disinformative estere e denunciarle pubblicamente.

Ma secondo William Triplett (ex funzionario dell’amministrazione Reagan e dei servizi di intelligence americani), questa legge avrà vita dura: il problema, per Triplett, è che qualunque provvedimento specificamente diretto a denunciare la disinformazione cinese, è destinato a sollevare un polverone in tutte le numerose organizzazioni finanziate dai soldi cinesi: aziende mediatiche che pubblicano inserti di propaganda cinese a pagamento (come il ‘China Daily’ del New York Times e del Washington Post, le principali pubblicazioni in lingua inglese del regime cinese), attività economiche che hanno interessi in Cina, o anche agenti al soldo del regime cinese che lavorano in diversi ambienti della società americana.

Triplett continua affermando che vede questa legge come un fatto positivo, ma osserva che avrebbe bisogno di un maggiore appoggio per riuscire a infrangere certe resistenze.

E anche Rychlak, come Triplett, concorda sugli sforzi di contrasto alla disinformazione ed esprime le sue preoccupazioni non sul fatto che la legge verrà approvata, ma per i problemi che ne scaturiranno dopo. E aggiunge che, se il governo statunitense creerà una struttura specifica per identificare e denunciare le attività di disinformazione straniere, quella struttura «sarà la prima cosa su cui il nemico cercherà di mettere mani».

Oltre a questo Rychlak vede anche i rischi derivanti dal creare una struttura preposta a dire cosa sia vero e cosa falso. Ma aggiunge anche: «se siamo destinati a essere una repubblica basata sull’idea che debba esserci una popolazione informata a prendere le decisioni, abbiamo bisogno di essere in qualche modo in grado di non farci ingannare; e questo è un qualcosa che la maggior parte dei singoli individui non ha né i mezzi né le capacità di fare».

Entro 180 giorni dall’approvazione, la legge porterà alla creazione di un Centro di informazione, analisi e risposta, gestito in coordinamento tra i ministri degli Esteri e della Difesa, del direttore nazionale dell’intelligence, del Consiglio dei direttori delle trasmissioni e di altri enti e dipartimenti.

Il nuovo centro avrà il compito di raccogliere e analizzare informazioni di tipo bellico sui governi di tutto il mondo, e di trovare il modo di impiegare queste informazioni nel quadro di una strategia di livello nazionale; e dovrebbe avere a disposizione 20 milioni di dollari, per retribuire a questo scopo giornalisti, organizzazioni non governative, aziende private e accademici.

Questa struttura servirà anche a identificare i sistemi impiegati nelle campagne di disinformazione di altre nazioni, come i portavoce di determinati think tank, partiti politici e Ong, allargando poi l’analisi alle reti di spie che questi diversi soggetti usano per «influenzare determinate popolazioni e governi».

Il Centro, infine, lavorerà con diversi dipartimenti per «denunciare e controbattere» alla disinformazione servendosi dei propri «articoli basati sui fatti, che difendano gli alleati e gli interessi degli Stati Uniti».

Nonostante tutto questo possa sembrare esagerato, è purtroppo rappresentativo di come stanno realmente le cose: nel giugno 2010 l’Fbi ha arrestato dieci spie del controspionaggio russo che lavoravano per infiltrarsi negli ambienti dirigenziali e nelle Ong degli Stati Uniti.

Anche Epoch Times, d’altra parte, in passato ha denunciato numerosi programmi di spionaggio creati con scopi di propaganda. Michael Juneau-Katsuya, ex capo dei Servizi Canadesi per l’Asia e il Pacifico, nel 2015 ha infatti dichiarato a Epoch Times: «Il solo numero di spie e di agenti impiegati in attività di ‘influenza’ è di per sé assolutamente fenomenale. È qualcosa privo di precedenti nella Storia».

 

Articolo in inglese: US Senate Bill Seeks to Shine Light on Foreign Disinformation

 

 
Articoli correlati