L’attentato all’aereo russo e l’eterno problema del Sinai

Mentre la causa dello schianto dell’aereo russo in Egitto rimane sconosciuta, l’incidente ha nuovamente focalizzato l’attenzione del mondo sulla penisola del Sinai, un luogo di numerose attività turistiche che da tempo è teatro di una crisi di sicurezza con implicazioni regionali e internazionali che non possono essere ignorate.

I disordini nel Sinai non sono una novità. Durante i disordini politici e civili che hanno seguito la rivoluzione egiziana nel 2011, la penisola del Sinai è diventata una base per diverse attività militari: i gruppi armati hanno approfittato del suo vuoto di sicurezza, utilizzando le armi contrabbandate dalla Libia per iniziare a imporre la loro ideologia jihadista. Un’attività che si è ulteriormente rafforzata nel 2013, dopo un colpo di stato militare che ha deposto il presidente Mohamed Morsi, e la successiva repressione contro gli islamisti da parte dell’attuale presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi. Ma nonostante la crisi del Sinai sia in corso da anni, solo nel corso di quest’ultimo anno il resto del mondo ha iniziato a prestarci attenzione seriamente.

Nel novembre del 2014, il gruppo jihadista Ansar al-Beit Maqdis (ABM), situato a Sinai, ha mostrato la sua fedeltà allo Stato Islamico (Isis). Da allora, sono aumentate sia la frequenza che la sofisticazione degli attacchi – per la maggior parte contro obiettivi militari e di polizia egiziane – con centinaia di morti in più di 700 attacchi raggiunti solo nella prima metà del 2015. Successivamente, l’1 luglio, sono stati lanciati diversi attacchi simultanei su più di una dozzina di obiettivi militari e di polizia, tutti vicini a Sheikh Zuweid, nel nord del Sinai, con i derivanti scontri senza precedenti che hanno portato a più di 100 morti.

I DOLLARI DEI TURISTI

La situazione in Egitto si è aggravata per via della mancanza di misure anti-terrorismo a breve termine, combinate con le problematiche politiche economiche e l’oppressione politica. Nel breve termine, il presidente al-Sisi ha represso duramente tutti gli islamisti, non solo i jihadisti, e quindi ha stimolato i radicali a prendere le armi contro lo stato. Allo stesso modo, la decisione di mettere fuori legge la Fratellanza Musulmana ha aperto uno spazio a più gruppi estremisti come quelli della Provincia di Sinai. In particolare, nel Sinai le rivendicazioni politiche sono combinate con le disparità sociali ed economiche, e con lo sviluppo della parte settentrionale della penisola – che è stata sostanzialmente trascurata nonostante sia una rinomata località turistica tanto quella del sud, soprattutto Sharm el Sheikh – e hanno cavalcato un’ondata di investimenti statali e di dollari dei turisti.

L’economia da cui dipendono i gruppi radicali è stata anche drammaticamente spremuta da quando il governo egiziano ha inasprito i controlli dei tunnel di contrabbando tra il Sinai e Gaza. Mentre Hamas, a Gaza, nega qualsiasi associazione diretta con la Provincia del Sinai, ed è di fatto in contrasto con l’Isis, entrambi i gruppi hanno fatto affidamento sul flusso di merci attraverso i tunnel, e hanno beneficiato dall’economia di contrabbando. Ora i leader locali stanno trovando più difficile mantenere la legittimità e affermare la propria autorità, e stanno perdendo parte della loro influenza su questi gruppi.

Nel frattempo, i militari egiziani non sono stati in grado di ottenere alcun vantaggio tattico nel paesaggio desertico e montagnoso del Sinai, dato che gli insorti sono ben capaci di utilizzarlo a proprio vantaggio.

STRARIPARE

La stabilità nel Sinai è ovviamente una priorità fondamentale per l’Egitto. L’intera premessa del regno di al-Sisi è la promessa di fermare i terroristi e garantire la stabilità. Ma da quando è salito al potere, l’Egitto ha subito numerosi attacchi, non solo nel Sinai, ma anche al Cairo e in un tentativo di attacco a Luxor. Questi incidenti hanno danneggiato ulteriormente l’industria del turismo in Egitto, che era già in difficoltà, e dal 2011 hanno portato a un calo dei ricavi dai siti archeologici del 95 per cento.

L’instabilità generale dell’Egitto e, in particolare quella del Sinai, è anche una delle maggiori preoccupazioni per Israele. 
La lotta al terrorismo e la cooperazione a livello di intelligence fra i due Stati è forte, con Israele che continua ad aiutare la campagna egiziana del Sinai e mantiene la propria presenza: in sostanza dominano ancora gli accordi di Camp David del 1979. Ma il rapporto è rischioso per entrambi gli Stati: la collaborazione con Israele è impopolare in Egitto e può essere facilmente trasformata per la propaganda dei gruppi estremisti, e Israele deve fare i conti con un confine instabile mentre attende che le forze egiziane stabilizzino la penisola.

Israele a parte, il Sinai è anche la chiave per la stabilità dell’intera regione. Situato nella posizione strategica ai margini del Levante, nel Golfo, e nel Nord Africa, la sua posizione renderebbe quell’area ideale per la circolazione dei gruppi militanti e del contrabbando di armi, diventando così una minaccia per la stabilità di tutto il Medio Oriente.

Non vi è alcun modo per uscire velocemente dalla situazione, dato che è proprio il ‘colpisci la talpa’ del governo egiziano in risposta alla attività degli insorti che è stato inefficace. Gruppi come quelli nella Provincia di Sinai stanno approfittando delle rimostranze politiche ed economiche esacerbate a lungo termine dal governo di al-Sisi per far sì che gli arresti di massa, le condanne a morte, e le operazioni militari da parte dello Stato egiziano contro tutti gli islamisti alimentino maggiormente gli sforzi jihadisti.

Naturalmente, la maggior parte degli abitanti del Sinai non supportano attivamente la Provincia di Sinai o qualsiasi altro gruppo jihadista; si stima che la stessa Provincia di Sinai abbia soltanto tra i 1000 e i 1500 membri attivi. Ma in assenza di una sicura leadership locale o di uno sviluppo economico, per questi gruppi non risulta difficile ottenere un punto d’appoggio.

L’Egitto ha l’urgente bisogno di smettere di concentrarsi sulla repressione militare a breve termine e deve invece elaborare adeguate strategie sociali, politiche ed economiche  di lungo termine. In caso contrario, una situazione già ‘infetta’ come questa potrebbe diventare uno dei più grandi problemi cronici del Medio Oriente.

 

Julie M. Norman è ricercatrice in Trasformazione dei conflitti e giustizia sociale presso la Queen University di Belfast, nel Regno Unito. Questo articolo è stato precedentemente pubblicato su TheConversation.com

Articolo in inglese: ‘Why the Sinai Peninsula Is so Dangerous— And Why the Rest of Us Should Care’

 
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