Per comprendere Prato bisogna prima comprendere la Cina

Nessuna malattia può essere debellata se prima non si individua la sua causa originaria. I sette corpi carbonizzati nel rogo della manifattura di Prato hanno scosso gli animi di un Paese che da più di due decenni ricerca una soluzione alla degenerata illegalità delle quasi cinquemila aziende cinesi del comune toscano.

Un distretto industriale che probabilmente offre l’area di lavoro nero più estesa d’Europa. Un degrado che si manifesta lampante nelle immagini dei dormitori in cartongesso mandate sulle emittenti nazionali in questi giorni. Nei capannoni si lavora, si mangia e si dorme. Per gli italiani residenti è uno spettacolo abitudinario osservare un operaio cinese che esce nel cortile del fabbricato per fare i suoi bisogni, all’aperto, nella più stravolgente assenza di igiene.

Il capo dello Stato chiede «interventi… per far emergere da una condizione di insostenibile illegalità e sfruttamento» quelle persone. I funzionari locali chiamano a gran voce l’aiuto del governo centrale, perché i trecento controlli annuali non servono; le aziende vengono sequestrate ma «poi riaprono da un altra parte con lo stesso metodo», sostiene dopo la tragedia il sindaco di Prato Roberto Cenni ai media davanti alla fabbrica bruciata.

A monte di un problema esiste sempre una causa che lo scatena. Ma nel comportamento introverso dei Cinesi risulta difficile per noi trovarla. «Non si integrano», dice la gente. I cinesi hanno la loro fabbrica, le loro mense, i loro negozi, i loro luoghi ricreativi. Alle televisioni che li intervistano non rispondono, scappano via, si nascondono. A Prato gli stessi pratesi non li conoscono quasi per niente, eppure sono vicini di casa.

C’è chi indica come colpevole il racket della criminalità cinese, che obbliga i propri concittadini a lavorare in condizione disumane, per un euro o meno all’ora. Ma non è chiaro – e questo ‘non sapere’ sgomenta – cosa realmente accada in questo flusso costante di merci e uomini che si alimenta nelle notti dei fine settimana, nei capannoni oscurati dal sole. Non ci sono reclami né denunce da parte dei cinesi.

Qui allora tracciano un percorso di comprensione le poche parole che lascia al Tg2 Andrea Pasquinelli, il comandante dei vigili urbani di Prato, quello che di controlli, di sanzioni amministrative e di sequestri ne sa più di tutti: «Diciamo che si auto-schiavizzano. Le uniche buste paga che abbiamo trovato sono due casi su duemila». Non più schiavitù quindi, ma auto-schiavitù. Una chiave interpretativa molto utile per comprendere la perversione che è in atto, quella dinamica autolesionista che solo chi è costretto a nascere, crescere e sopravvivere nel terrore può conoscere. Solo chi è stato costretto a rinnegare la propria coscienza per lunghi decenni può cercare la prosperità nella miseria umana più crudele, la ricchezza materiale nell’assenza di ogni morale, scambiando l’etica cinese con la cultura imposta dal Partito Comunista Cinese (Pcc).

«L’etica cinese non contempla il senso dello sfruttamento, sangue e sudore profusi nel lavoro rappresentano un valore. C’è semmai la propensione all’autosfruttamento come passaggio per raggiungere il riscatto sociale. Mancando la consapevolezza di ricevere un torto, i lavoratori cinesi sopportano e non protestano», dice un lavoratore cinese di Prato al quotidiano La Nazione, ricalcando la logica del Partito, che sedimenta nei Cinesi una mentalità che li trasforma in macchine da sfruttare, che si auto-sfruttano.

ALLE ORIGINI DELL’«AUTO-SFRUTTAMENTO»

Solo la generazione più anziana del popolo cinese è nata ed è stata educata in una società libera, che esaltava le cinque virtù confuciane della rettitudine, decoro, lealtà, benevolenza e saggezza, per millenni alla guida di ogni comportamento, e che davano all’uomo cinese la capacità di discernere una vita immorale e votata all’arricchimento materiale da una vita sì dolorosa, ma dignitosa e di ricerca spirituale.

Le generazioni successive al 1949, invece, sono state educate dalla cultura del Partito Comunista Cinese, che ha scatenato una guerra spietata alla tradizione, sostituendo i principi classici con una filosofia di lotta e di violenza, e rendendo i Cinesi poveri e timorosi, addirittura orgogliosi di essere ‘volontari’ protagonisti di un abbrutimento di massa senza precedenti nella storia.

«Abbiate le mani piene di calli, rotolatevi fino ad essere ricoperti di fango, e vivete con i ‘pidocchi rivoluzionari’ su tutto il corpo», era uno dei motti lanciati dal Pcc durante la Rivoluzione Culturale.

Poco dopo, apparentemente migliore, ma allo stesso modo attentatore della moralità, è suonato il motto «arricchirsi è glorioso», con il quale il leader comunista Deng Xiaoping ha rilanciato negli anni 80 la crescita economica del gigante asiatico, trasformando i Cinesi in macchine d’accumulazione di reddito e pianificando accuratamente la migrazione al di fuori della Cina.

Il fenomeno lo spiega anche un rapporto del 2006 dell’Ufficio d’intelligence del Comando generale della Guardia di Finanza: «Dal 1978, lo Stato cinese ha negoziato degli accordi con altri Paesi al fine di impiegare la propria manodopera all’estero. Lo scopo era il controllo della valuta straniera, l’acquisizione di tecnologia più avanzata e il tentativo di gestire, a livello centrale, il traffico d’emigranti. Negli anni ottanta, 540 mila cinesi sono andati a lavorare all’estero».

Arrivano all’estero, ma poi si chiudono, come se stessero in guardia dal vicino; «hanno un comportamento strano», dicono i pratesi. Sotto il regime comunista i Cinesi sono stati obbligati a spiarsi e denunciarsi reciprocamente per più di sessant’anni. Innumerevoli sono i casi di figli che hanno segnalato al Partito le proprie stesse madri o padri come «controrivoluzionari», consapevoli di mandarli incontro alla morte, anche solo per aver pronunciato dentro le mura di casa qualcosa che non era strettamente in linea con il Partito.

E questo non è il solo modo in cui il Pcc ha demolito la famiglia cinese. Dal 1971 al 2010 – secondo dati del Ministero della Sanità cinese – madri di famiglia hanno dovuto acconsentire a 336 milioni di aborti forzati, una media di 23 mila al giorno, spesso uccidendo il proprio feto anche all’ottavo o al nono mese di gravidanza.

Allora viene da chiedersi se gli interventi della politica, seppur «concertati a livello nazionale, regionale e locale» possano davvero risolvere un problema che ha radici velenose ben al di là dei nostri confini, e se per risolvere davvero il problema dei cinesi a Prato non sia necessario prima affrontare il problema della corrotta Cina.

 
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