Luci e ombre del futuro dello Zimbabwe

di David Kilgour*

Nei 37 anni in cui il dittatore Robert Mugabe è stato a capo della nazione, lo Zimbabwe (assieme alla Corea del Nord e all’Iran del dopo 1979) è stato tra i più corrotti e mal governati regimi al mondo. In forte contrasto, il confinante Botswana, durante lo stesso periodo di tempo, ha avuto un governo democratico ‘modello’.

Nel 2016 Human Right Watch ha commentato, riferendosi a Mugabe: «Ha intensificato la repressione contro migliaia di persone che hanno protestato pacificamente contro le violazioni dei diritti umani e il peggioramento della situazione economica […] attivisti della società civile, giornalisti e oppositori del governo sono stati maltrattati, minacciati o arrestati arbitrariamente dalla polizia. Poliziotti e agenti della sicurezza statale hanno continuato a commettere violazioni e a rimanere molto spesso impuniti».

I vari governi nel Sudafrica, a eccezione di quello di Nelson Mandela dal 1994 al 1999, hanno sostenuto e mantenuto in vita il regime di Mugabe per molti anni. Per esempio l’ex presidente Thabo Mbeki ha sostenuto Mugabe dal 1991 al 2008 quando lui e i suoi uomini hanno truccato le elezioni, mandato in rovina l’economia, abolito la libertà di stampa e portato lo Zimbabwe alla bancarotta. Per questo sostegno Mbeki è stato ampiamente criticato: se Il Sudafrica avesse agito con più coraggio, senza dubbio Mugabe avrebbe dovuto farsi da parte da diversi anni.

In tutto questo, il ruolo del Partito-Stato al potere in Cina nelle sofferenze di questo popolo ingegnoso e pacifico, si è esplicato a partire dagli anni 60 e 70, quando la Cina ha sostenuto i leader della guerriglia anti-coloniale, tra cui Mugabe, aiutandoli con armi e denaro. Negli anni 90 il Pcc ha investito in escavazioni, agricoltura, energia e edilizia, diventando uno dei partner commerciali principali, ignorando le violazioni dei diritti umani e una miriade di questioni politiche.

Le dimissioni forzate a cui Mugabe, 93enne, si è dovuto piegare di recente, segnalano una nuova fase nelle relazioni internazionali dello Zimbabwe. Sono due le fazioni nel partito politico Zanu-PF che hanno reclamato il diritto di succedergli: la ‘Generazione 40’ (G40), guidata da sua moglie e da due altri leader politici giovani, e il Gruppo Lacoste, che ha sostenuto Emmerson Mnangagwa, noto come ‘Il Coccodrillo’ per la sua mancanza di scrupoli durante la Guerra Civile e una serie di massacri dei civili Ndebele negli anni tra il 1983 e il 1984.
Pechino ha stretti legami con il Gruppo Lacoste e con le forze di difesa dello Zimbabwe, vende al Paese armi e finanzia il nuovo Collegio della Difesa Nazionale dello Zimbabwe.

Il capo delle forze armate dello Zimbabwe, il generale Constantine Chiwenga, è stato un personaggio chiave del recente golpe militare, che ha tolto il potere a Mugabe e arrestato vari membri della G40, assicurando un rapido ritorno di Mnangagwa dal Sud Africa, dove si trovava dal 6 novembre perché Mugabe lo aveva destituito da vice presidente.

Mnangagwa, diventato presidente ad interim il 24 novembre, deve rapidamente mettere superare l’eredità di Mugabe, fatta di povertà, disoccupazione diffusissima, estrema inflazione, pseudo valute e perdita di accesso alle grandi istituzioni di prestito internazionali.
I cittadini dello Zimbabwe hanno pagato un forte prezzo per l’estremo nazionalismo e necessitano di un governo stabile e responsabile. Più del 70 per cento dei 16 milioni di persone che vivono in Zimbabwe, guadagnano meno di 2 euro al giorno e il 90 per cento delle persone sono o disoccupate o lavorano meno di quanto vorrebbero.

Tra le prime iniziative del nuovo presidente c’è stata una ‘buona uscita’ a Mugabe di 5 milioni di dollari e 150 mila dollari all’anno di vitalizio. Non certo una mossa che faccia ben sperare i suoi poveri connazionali, o gli investitori internazionali, esclusi quelli di Pechino. E nemmeno il fatto che nel Consiglio dei Ministri non abbia inserito alcun politico dell’opposizione può far piacere a chi speri in un futuro più democratico.

Pechino è già il quarto maggior partner commerciale dello Zimbabwe e il più grande investitore nel Paese. Il totale degli investimenti esteri diretti cinesi dal 2003 ha raggiunto quasi 7 miliardi di dollari. Dal 2000, il Dragone ha offerto allo Zimbabwe 1 miliardo e 700 mila dollari in prestiti per progetti di infrastrutture. Dal 2000 al 2012 ha investito in almeno 128 progetti.

La politica di indigenizzazione di Mugabe ha richiesto che le aziende fossero sempre di proprietà per almeno il 51 per cento di abitanti del posto. Nonostante le società minerarie cinesi nel 2012 avessero cominciato le loro operazioni lasciando il 51 per cento delle azioni ai cittadini dello Zimbabwe, nel 2015 Mugabe le ha ‘integrate’ nella Zimbabwe Consolidated Diamond Company, provocando le ire di Pechino. Il Partito-Stato sembra però avere l’impressione che il nuovo presidente Mnangagwa, con il sostegno delle forze armate e di Chiwenga, saprà tutelare i suoi investimenti.

Ma anche altri investitori esteri hanno atteso per decenni di poter investire denaro nello Zimbabwe. Mnangagwa ha potuto attrarre gli investimenti stabilizzando la valuta e mettendo fine al processo di nazionalizzazione. Ha ripulito le liste elettorali e accreditato la diaspora per il voto: infatti milioni di zimbawiani che sono fuggiti all’estero potrebbero decidere di tornare, se la loro patria verrà governata meglio.

Nick Dearden, direttore dell’Ong britannica Global Justice Now, afferma che i governi democratici possano giocare un ruolo importante: «Sarà necessaria una grande cancellazione del debito, così come veri aiuti e investimenti, e non legati a riforme nella direzione del libero mercato, ma piuttosto nella direzione di un grande piano di sviluppo democratico, pienamente trasparente e responsabile».

Infatti c’è grande preoccupazione per il fatto che, vista la sua storia, Mnangagwa non vorrà intraprendere alcun percorso in direzione delle tanto necessarie riforme democratiche ed economiche. Se andrà così, la rimozione di un leader storico come Mugabe non sarà servita a nulla di buono, e i zimbawiani continueranno a stare al 154esimo posto su 188 Paesi nell’Indice di Sviluppo Umano dell’Onu.

 

* David Kilgour, avvocato ed ex magistrato canadese, è stato deputato alla Camera dei Comuni del Canada per 27 anni. Nel governo di Jean Chretien, è stato ministro degli Esteri.
È autore di numerosi libri e coautore, con l’avvocato canadese per i diritti umani David Matas, dell’inchiesta sulla persecuzione contro i 100 milioni di cinesi praticanti della Falun Dafa Bloody Harvest: The Killing of Falun Gong for Their Organs.

 

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente quelle di Epoch Times.

 

Articolo in inglese: Reversing Zimbabwe’s Nightmare

Traduzione di Vincenzo Cassano

 
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