Le radici (e i colpevoli) della crisi Alitalia

Quella della crisi di Alitalia è una storia lunga e piena di sfaccettature. La concorrenza delle low cost, gli aiuti statali, le accuse contro i lavoratori e contro i dirigenti, creano una matassa a dir poco difficile da dipanare.
Epoch Times ha intervistato Alberto Orlandini, dipendente Alitalia dal 1978 al 2009 principalmente nell’ambito della gestione del personale. Una memoria storica della ex compagnia di bandiera italiana.

Ripercorriamo tutta la storia. Qual è stata la prima vera crisi di Alitalia, e da cosa è stata innescata?

Quella del 2000, con la rottura dell’alleanza con Klm. Le motivazioni sono da ricercare in vari fattori, tra cui lo scarso peso rappresentativo del Paese all’interno della Comunità Europea, la quale giudicò gli aiuti di Stato compatibili con la ricapitalizzazione di Alitalia, penalizzandone pesantemente lo sviluppo, salvo poi essere smentita, dopo tre anni, dal tribunale Ue. Troppo tardi.

Un altro fattore è stato l’alternanza di due governi di sinistra e di tre ministri che correvano dietro alle bizze prima di Kinnock e poi della De Palacio, commissari Ue dei Trasporti, e non bisogna nemmeno tacere del veto posto da Rifondazione Comunista alla privatizzazione di Alitalia durante il governo Prodi.

Ha inoltre contribuito alla crisi anche la lobby potentissima delle compagnie europee, tutte alleate contro lo sviluppo di Alitalia e tutte insieme per continuare ad attingere al ricco mercato padano per alimentare da Linate i loro aeroporti, Heathrow, Charles de Gaulle e Francoforte.

Non hanno aiutato le contraddizioni campanilistiche di Roma e Milano per i rispettivi aeroporti e infine, secondo la ricostruzione fatta dall’allora presidente di Alitalia, Fausto Cereti, in una intervista al mensile Specchio economico nel 2008, intervennero ulteriori complicazioni derivate dal ripensamento di Klm sulla nazionalità della nuova azienda. Alitalia aveva sempre sostenuto che la legal entity fosse italiana e sembrava che gli olandesi, peraltro abituati a decentrare le loro aziende in altri Paesi, fossero d’accordo, salvo poi ripensarci; pare che maldestramente Domenico Cempella avesse preteso di nominare nella struttura della nuova società persone a lui fedeli: «Per cui ci fu attribuita la colpa di aver voluto troppo» concludeva Cereti nell’intervista. Non mi risulta che nessuno abbia mai smentito i contenuti di questa intervista.

Quando e in che contesto sono occorse le successive crisi?

Dopo la rottura della alleanza con Klm è purtroppo intervenuta la crisi mondiale del trasporto aereo legata agli avvenimenti dell’11 settembre 2001. A fronte di tale crisi aziende meno solide sono precipitate, vedi il fallimento di Sabena e di Swissair, ma aziende solide come Air France (Af), Lufthansa (Lh) e British Airways (Ba) hanno risposto accelerando il processo di alleanze con altri vettori aerei per ottimizzare i costi e offrire un network competitivo. In questo contesto Alitalia entra nella alleanza Skyteam, governata da Af, ma in un ruolo di assoluta sudditanza e complementarietà del vettore principale.

L’anno 2005, con l’arrivo di Cimoli al vertice dell’azienda, segna la fine della vecchia Alitalia, complici la separazione societaria tra Alitalia ed Alitalia Servizi, l’ingresso di Fintecna.
La gestione senza scrupoli di Cimoli e dei suoi uomini crea un clima irrespirabile e si genera una drammatica inversione di potere e di ruoli. È Alitalia Servizi che comanda. Comanda perché fornisce servizi senza una vera possibilità di verifica da parte di Alitalia Fly ed a prezzi più alti del mercato, ha i soldi di Fintecna, ha gli uomini di Cimoli al suo vertice, gestisce la fetta più strategica degli acquisti, quelli aeronautici. Gli strumenti della mobilità, della solidarietà e gli esodi incentivati, in molti casi forzosi, uccidono definitivamente il clima di affezione ed il senso di appartenenza all’azienda.

Sulla buona uscita di Cimoli e sulle accuse di dissipazione del bene aziendale è ancora aperta una vicenda giudiziaria che, allo stato, ha visto la condanna di Cimoli a 8 anni e 8 mesi di reclusione.

Nel 2007 salta l’ipotesi di acquisizione di Alitalia da parte di Air France, che ritira la propria offerta di acquisto dopo aver compreso che nell’ambito delle elezioni politiche italiane il candidato premier, Silvio Berlusconi, aveva fatto della italianità di Alitalia uno degli slogan elettorali.

La compagnia è passata gradualmente da pubblica a privata. Quando è successo esattamente e per quali ragioni si è optato per la privatizzazione?

È necessario risalire alla decisione politica di liquidazione dell’Iri imposta dalla Comunità Europea, negli anni ’90, che considerava ‘aiuti di Stato’ il consolidamento dei debiti dell’Iri stesso e delle proprie aziende. Nel dicembre del 2000 l’iri in liquidazione cedette le quote possedute in Alitalia al ministero del Tesoro che ne avrebbe dovuto gestire la privatizzazione.

A dicembre 2006 il Tesoro fa partire un avviso di invito a manifestare interesse all’acquisizione di un pacchetto di controllo della compagnia che si dovrà consolidare in una offerta pubblica di acquisto (Opa) totalitaria ma con dei vincoli rigidissimi. In sintesi chi comprava doveva garantire per otto anni l’identità nazionale, il logo, i marchi e i diritti di traffico, assicurare per cinque anni un servizio quantitativo e qualitativo adeguato alle esigenze di crescita del Paese, aveva l’obbligo di preventivi accordi sindacali sui livelli occupazionali, quello di documentare il possesso di un patrimonio netto di almeno cento milioni di euro, e quello di rispettare i contratti con Alitalia Servizi ed altre amenità.

A febbraio 2007, esprimono manifestazioni di interesse AP holding di Carlo Toto, appoggiato da Banca Intesa, il fondo Management & capitali di Carlo De Benedetti, il fondo USA MatlinPatterson, il fondo USA Texas Pacific Group e l’Aeroflot appoggiata da Unicredit banca mobiliare.

Dopo una serie di abbandoni, però, a metà luglio il Ministero del Tesoro annuncia che la gara è fallita.

Libonati, che nel frattempo era succeduto a Cimoli alla presidenza di Alitalia e il cui incarico era subordinato alla riuscita della gara, ammette coscienziosamente di non possedere le competenze operative per gestire una compagnia aerea e si dimette.

La privatizzazione si realizzerà solo attraverso il fallimento del 2008 e la nascita di Alitalia CAI nel 2009.

Se come hanno più volte dimostrato i sindacati, il costo del lavoro non ha influito sulle casse della compagnia, da dove potrebbero venire la maggior parte delle perdite economiche?

I sindacati fanno il loro mestiere, la verità è forse che a fronte di retribuzioni abbastanza in linea con il settore, la produttività era ancora bassa. Le principali perdite economiche sono riconducibili a scelte di flotta imposte dalla politica e non adeguatamente supportate finanziariamente, a scelte di network condizionate da una composizione della flotta con troppi aerei di diverse dimensioni e modelli (e questo non consentiva di ottimizzare i costi di manutenzione e di impiego degli equipaggi), a politiche commerciali a volte avventuristiche e perdenti, e alla scarsa propensione ad adeguarsi a un mercato competitivo, privilegiando l’impossibile mantenimento di un contesto protetto.

Alcuni attribuiscono alle compagnie low cost che operano in Italia, così come alle ferrovie, gran parte della perdita del traffico aereo di Alitalia, e quindi considerano questi aspetti determinanti nella crisi Alitalia; c’è qualcosa di vero in questo?

La nascita delle compagnie low cost è stata ampiamente sottovalutata da Alitalia e dal governo italiano e non sono fatte scelte protezionistiche come in Francia o in Germania, dove Af e Lh condizionarono pesantemente, attraverso misure adottate dai rispettivi governi, l’apertura di basi per le low cost. Cosa diversa è lo sviluppo dell’alta velocità delle ferrovie italiane che arrivò in netto ritardo rispetto agli altri Paesi europei ed era comunque ineludibile in un Paese moderno. Il vero problema è che non c’è stata una politica di pianificazione e di intermodalità tra treno, aereo e, aggiungo, nave, in questo Paese. Le uniche iniziative sono determinate da una sorta di opportunità emergenziale ma non da una ispirata pianificazione con una visione strategica.

Basta prendere in considerazione che ci sono stati: dodici tra presidenti e/o amministratori delegati dal 1976 al 2008, 32 anni, una media di uno ogni due anni e mezzo circa: Nordio, Verri, Bisignani, Schisano, Riverso, Cempella, Mengozzi, Zanichelli, Cimoli, Libonati, Prato, Police: ventuno ministri dei Trasporti nello stesso periodo, con una media di un anno e mezzo circa ciascuno; quindici ministri del Tesoro o dell’Economia e delle Finanze sempre nello stesso periodo, con una media di uno ogni due anni circa.

Come giudica la fusione del 2014 con Etihad e l’operato degli arabi?

Alitalia LAI, fallita nel 2008 e trasformata in Alitalia CAI era, per la seconda volta, sull’orlo del fallimento a seguito delle strategie sbagliate e della insufficiente capitalizzazione del progetto Fenice voluto da Berlusconi e attuato da Passera, Banca Intesa. L’unica interessata rimasta, alla fine di un periodo di convulse consultazioni, era Etihad. Questa compagnia in concorrenza spietata con Emirates e Qatar per alimentare i propri hub da e per l’Europa ha scelto una politica di partecipazione con alcune compagnie europee, tra le quali appunto Alitalia, che si è dimostrata fallimentare. Non basta scegliere manager anglosassoni che hanno troppo facilmente risanato compagnie orientali, bisogna effettivamente essere in grado di rispettare i piani aziendali con investimenti tempestivi quali quelli promessi ma mai attuati sullo sviluppo del lungo raggio.

Il referendum che ha dato il via al commissariamento nel 2017, è stato un bene o un male?

Il referendum su un ‘verbale di confronto’ firmato dai vertici confederali Camusso, Cgil, Furla, Cisl, e Barbagallo, Uil, senza alcuna iniziativa di assemblee tra i lavoratori per spiegare i contenuti dell’intesa, è stato una follia. C’è un problema di rappresentanza e rappresentatività delle maggiori confederazioni sindacali in Alitalia, e i  vertici sindacali confederali e delle associazioni professionali avrebbero dovuto assumersi la responsabilità fino in fondo, evitando quindi un referendum che ha messo le categorie le une contro le altre, ma che ha creato spaccature anche all’interno delle singole categorie. È  stato facile a quel punto il gioco dei sindacati antagonisti di controproporre una sorta di ri-nazionalizzazione di Alitalia in alternativa all’accordo raggiunto.

Quale potrà essere il futuro della compagnia e le possibili vie d’uscita?

Bisogna ripartire dal personale: un’azienda di servizi non può pensare di gestire il proprio personale solo con cassa integrazione e mobilità; ci vuole un forte investimento di credibilità nella capacità e nelle competenze possedute dal personale, ma le persone devono mettere da parte le rivendicazioni su quello che è stato e non sarà più, devono pensare che il lavoro è un valore fondamentale che va difeso a tutti i costi, devono rendere la propria professionalità un bene irrinunciabile per se stessi e per l’azienda, e devono imparare a  togliere da soli le castagne dal fuoco, smettendo di pensare che ci sia sempre qualcun’altro a farlo.

Per la parte industriale, probabilmente si arriverà alla separazione definitiva tra la parte fly, aerei, diritti di traffico, area commerciale e network e la parte handling, che verrà ceduta al miglior offerente tra le aziende specializzate in queste attività. La parte manutentiva degli aerei, ormai già ridotta all’osso, sarà probabilmente ulteriormente contenuta solo sulle attività di manutenzione giornaliera e di linea e sarà un corollario della parte fly.

 

Intervista adattata per motivi di brevità e chiarezza giornalistica

 
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