Le difficoltà delle società occidentali in Cina

È noto come l’economia cinese stia rallentando e lo yuan sia venendo svalutato. Ma quali sono le ripercussioni sull’economia reale? Come reagiscono le aziende a questo cambio nel clima economico?

A parte il ‘Libro Beige Cinese’, che raccoglie un’indagine sul campo effettuata su migliaia di aziende, la società di consulenza McKinsey conduce regolarmente interviste a dirigenti di massimo livello; questa volta ha chiesto a settanta amministratori delegati di grandi multinazionali attive in Cina come vadano i loro affari. In coerenza con l’andamento generale dell’economia, le risposte non sono state univoche.

Il rapporto afferma che «le due sfide che gli amministratori delegati in Cina [fronteggiano, ndr] sono: rispettare gli obiettivi-target mentre fanno i conti col calo della domanda e al tempo stesso costituire i loro staff organizzativi locali». E l’80 per cento dichiara di essere in difficoltà nel rispondere prontamente ai cambiamenti del mercato cinese.

C’è una buona notizia: la maggior parte dice che le loro società stanno ancora crescendo più in fretta dei rispettivi segmenti di mercato cinesi, e che vedono la Cina come un buon posto per la crescita della loro carriera. Ma quando si tratta di risovere i problemi, non ricevono molto aiuto dalle sedi centrali. McKinsey spiega infatti che «un altro grosso problema è gestire i rapporti con le sedi centrali, e far capire le peculiarità uniche dell’essere dirigenti nel contesto cinese».

Cosa intendano con «perculiarità uniche» non è chiaro, ma vi sono senz’altro diverse ‘unicità’ del fare affari in Cina che meritano di essere citate.

Ad esempio, potrebbe essere che i dirigenti incontrino dei problemi quando si tratta di spiegare che la Cina è un Paese estremamente corrotto e che per portare avanti gli affari impone requisiti senza eguali: come nel caso di JP Morgan, che ha dovuto assumere i figli di diversi pezzi grossi del Partito Comunista per poter concludere nuovi affari; o il fatto che i lavoratori cinesi, sempre più arrabbiati per il  rallentamento dell’economia, stanno organizzando proteste e scioperi in numeri da record; oppure che certi uomini d’affari semplicemente spariscono all’improvviso, perché non hanno seguito la linea dettata dal Partito per la gestione del crollo del mercato azionario.

Tutte cose abbastanza difficili da spiegare a sedi centrali che per la maggior parte sono basate in Europa o negli Stati Uniti.

E, per aggiunere il danno alla beffa, i settanta amministratori delegati che lavorano in Cina confermano che per le multinazionali in Cina continua a tirare una brutta aria: secondo il rapporto, infatti, «la maggior parte non vedono miglioramenti nell’ambiente degli affari cinese, e temono che le difficoltà per le multinazionali possano persino aumentare».

Preoccupazioni che non stupiscono, dopo l’irruzione negli uffici Microsoft di quest’anno e le sanzoni per ‘concorrenza sleale’ a Volkswagen e Chrysler. Ma che servono da monito, perché le cose invece che migliorare potrebbero peggiorare.

 

 

 
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