Meno hacker e più furto di tecnologia, la crisi dell’industria cinese

Il Partito Comunista Cinese ha una nuova strategia per la guerra economica, anche se, nella storia della competizione industriale, nuova proprio non è.

Secondo una fonte ai massimi livelli del Pcc informata sul settore commerciale, questo nuovo programma di guerra economica è stato lanciato tra metà del 2015 e gli inizi del 2016 per rimpiazzare il precedente modello, basato sugli attacchi hacker volti al furto di informazioni economicamente utili.

Il 25 settembre 2015, l’allora presidente americano Barack Obama, si è incontrato con il leader del Pcc Xi Jinping alla Casa Bianca: in tale occasione, hanno annunciato un accordo bilaterale secondo cui entrambi i Paesi si sarebbero astenuti dall’utilizzo di attacchi hacker per il furto della proprietà intellettuale, dei segreti commerciali o di altre informazioni confidenziali, utili a ottenere vantaggi commerciali.
Sullo sfondo di questo incontro vi era un contesto di costanti furti di informazioni economiche subiti dagli Usa da parte degli attacchi hacker cinesi; Obama aveva quindi cominciato a minacciare sanzioni contro le compagnie cinesi che si avvantaggiavano degli attacchi, e con questo accordo queste sanzioni sono state evitate.

Then-French Prime Minister Jean-Marc Ayrault (3rd R) prepares to present a model car to Chinese managers on a visit to the Dongfeng Peugeot-Citroën Automobile plant on Dec. 7, 2013 in Wuhan,China. The following year, Chinese state-owned Dongfeng became an equal shareholder in PSA Peugeot Citroën, the leading carmaker in France. (PETER PARKS/AFP/Getty Images)
Wuhan, Cina, 7 dicembre 2013. L’allora primo ministro francese Jean-Marc Ayrault (terzo da destra) pronto a presentare un modello di automobile ai manager cinesi in visita nella fabbrica Dongfeng Peugeot-Citroën Automobile (PETER PARKS/AFP/Getty Images)

Quale esempio di questa strategia, la fonte ha citato una compagnia cinese che costruisce veicoli aerei automatici industriali, e che ha cominciato a creare delle joint venture con società americane: «Il loro scopo è portare la loro compagnia negli Stati Uniti per poter formare una connessione con un’altra compagnia, lavorarci insieme, e poi riportare personale o tecnologia in patria».
Il Pcc si è mosso rapidamente nella sua ricerca di acquisizioni straniere e di joint venture, e per l’autunno del 2016 gli effetti della strategia sono diventati già visibili: secondo dati del Rhodium Group, società di consulenza di New York, gli investimenti cinesi diretti negli Usa, su base annuale, sono quasi triplicati nel 2016 rispetto al 2015, andando dai 15 miliardi e 300 milioni precedenti, ai 45 miliardi e 600 milioni dell’ultimo anno.

Questo cambiamento ha fatto molto rumore nei circoli economici e politici di tutto il mondo: a febbraio 2016, il New York Times ha scritto che la politica si sta sempre più ribellando alle società cinesi che cercano di acquisire aziende tecnologiche americane. Ad agosto 2016, Bloomberg riferiva che le acquisizioni cinesi hanno portato a sentimenti avversi in tutto il mondo prima del summit del G-20; e, secondo The Trumpet, il Tesoro federale australiano ha rifiutato due accordi con la Cina – relativi a compagnie energetiche, e dal valore di 7 miliardi e 600 milioni di dollari – per ragioni di sicurezza.

Ad agosto 2016, il media israeliano Haaretz ha pubblicato un’analisi dal titolo Il motivo dello shopping sfrenato della Cina in Israele, che faceva notare il trend crescente di acquisizioni, ma che lasciava il punto interrogativo sulle sue motivazioni. L’autore dell’articolo ha affermato che Israele – economia solida e noto innovatore – costituisce solo un buon parcheggio, per i capitali cinesi in fuga.

UNA STRATEGIA STANDARD

La nuova strategia cinese non è nuova, secondo Amar Manzoor, autore de L’arte della guerra industriale: «In pratica hanno copiato il Giappone».

Negli anni 50, spiega Manzoor, molte auto Toyota sembravano simili alle Ford Mustang, ma venivano vendute a un prezzo più basso. Dopo essere entrata nel mercato americano, Toyota si è unita al costruttore americano General Motors per creare lo stabilimento New United Motor Manufacturing.
Unendosi a una grande compagnia statunitense, e costruendo uno stabilimento negli Stati Uniti, la Toyota ha potuto valutare il livello di accettazione dell’auto straniera da parte degli americani, in vista della possibile creazione di stabilimenti Toyota veri e propri in America. Questa manovra ha anche permesso alla Toyota di cominciare a sviluppare una sua rete di vendita negli Stati Uniti.

Secondo Manzoor, molti Paesi sono passati attraverso la fase dell’emulare un concorrente straniero, per poi creare delle partnership con le compagnie inserite in quel mercato: il costruttore di auto indiano Tata Motors, per esempio, ha comprato la maggioranza delle azioni di Jaguar Land Rover, cosa che probabilmente aiuterà a trasferire le conoscenze occidentali in India.

«Tutto quello che l’India sta facendo – afferma Manzoor, l’autore de  L’arte della guerra industriale – si basa sulla guerra economica: vuole l’accesso alla tecnologia, vuole gli stabilimenti. E lo stesso vale per la Cina».

Former New Zealand Prime Minister John Key presents a rugby jersey to Chinese leader Xi Jinping in Wellington, New Zealand, on Nov. 20, 2014. China has become the biggest buyer of New Zealand farmlands, and Shanghai Pengxin is now New Zealand's third-largest dairy producer. (Hagen Hopkins/Getty Images)
L’ex primo ministro della Nuova Zelanda, John Key, regala una maglietta da rugby al leader cinese Xi Jinping. 20 novembre 2014 (Hagen Hopkins/Getty Images)

«Quello che tende ad accadere, è che in questo modo si sviluppano dei poli industriali». E non sono solo i Paesi in via di sviluppo a cercare di formare dei poli industriali, ma anche quelli già sviluppati, Regno Unito e Stati Uniti inclusi.

Il valore dell’avere delle proprie fabbriche va infatti molto oltre il normale profitto: i lavoratori che fabbricano i prodotti sono spesso quelli che pensano a dei modi per migliorarli.
L’innovazione industriale negli Stati Uniti è infatti calata per via della competizione derivante dalle importazioni cinesi, secondo un recente rapporto dell’Ufficio Nazionale di Ricerca Economica degli Usa, che fa notare come negli Usa ci siano sempre meno brevetti.

Il Paese che controlla le industrie controlla anche il mercato del lavoro, e ogni nazione che s’intenda di strategie di guerra industriale cercherà anche di ottenere il controllo delle materie prime e di tutta la catena produttiva. I cinesi, in particolare, «vogliono controllare la fornitura e la domanda, e il miglior modo di farlo è controllare il mercato stesso. Ed è questo l’attuale trend della guerra industriale».

E quando la guerra industriale giunge a questo livello, comincia ad avere effetti sulla sicurezza nazionale: secondo un rapporto delle Forze Armate statunitensi, «l’accesso delle compagnie cinesi a risorse, tecnologie, mercati ed elite si traduce in mezzi di influenza e potere che possono essere sfruttati per molteplici obiettivi, non necessariamente solo commerciali».

Per fare un esempio, spiega Manzoor, nella Seconda Guerra Mondiale, le compagnie che prima costruivano auto, sono state poi destinate a costruire carri armati e aerei da guerra. Se un Paese si ritrovasse all’improvviso in guerra, mancando di produzione interna, avrebbe bisogno di costruire le fabbriche, di raggiungere le capacità industriali necessarie e di creare l’intera filiera da zero.

CAMBIAMENTO INTERNO

Il Pcc ha ridotto il numero di attacchi hacker contro gli Stati Uniti, sebbene alcune delle sue unità di pirati informatici rimangano attive: la compagnia di sicurezza informatica FireEye ha riferito a giugno 2016 che dalla metà del 2014 si riscontra «un notevole declino delle attività di intrusione, da parte di gruppi con sede in Cina, contro soggetti appartenenti agli Stati Uniti e ad altri 25 Paesi».
La reazione degli Usa agli attacchi, continua la relazione,  potrebbe aver portato Pechino a riconsiderare le sue operazioni su larga scala».

Il nuovo programma di attacchi hacker statali del Pcc, invece, ha due obiettivi: espandere il mercato dei prodotti derivanti da fabbriche cinesi, e rubare direttamente la proprietà intellettuale dai concorrenti.
La fonte cinese non usa mezzi termini: «L’unico modo che hanno per innovare è fare una cosa: rubare».

Il nuovo programma si basa su programmi già esistenti per il furto di proprietà intellettuale, che il Pcc da tempo usa parallelamente agli attacchi hacker: questi includono il programma Torch, relativo alle industrie commerciali high-tech, il Programma 973 per la ricerca, e il Programma 211 per le università.

Secondo il libro China’s Industrial Espionage [Lo spionaggio industriale cinese, ndt], tutti questi programmi fanno uso della «collaborazione e delle tecnologie straniere per risolvere le falle più importanti» e, tra le varie cose, prevedono tattiche per incoraggiare le persone abili ed esperte a tornare in Cina, oppure a rendersi utili direttamente all’estero, attraverso il trasferimento di informazioni ottenute dai datori di lavoro occidentali.

La situazione economica cinese non è così ben messa come il regime vorrebbe far credere al mondo: secondo la fonte cinese, «l’ambiente imprenditoriale è completamente cambiato. Cambiato in peggio».
«Ci sono alcuni problemi gravi. Ci sono tantissimi disoccupati, che cercano risposte, ma il governo non sembra averle. Ci sono un sacco di proteste che prima  non c’erano […] Parlo di migliaia di persone. Hanno cartelli e scritte spray sulle magliette; e diventano violenti molto facilmente».
«Questa gente ha perso soldi, ha perso tutti i risparmi di una vita, ma il governo non sta facendo fronte alle loro necessità, e le aziende pensano solo a incrementare le vendite».

Nel frattempo, «gli innovatori se ne vanno in gran massa. O perché vengono cacciati dal governo, o perché si accorgono che il governo li sta derubando».

Le aziende «non fanno abbastanza soldi e non ottengono ordini sufficienti dai clienti», e si stanno rendendo conto che, a causa dei livelli di povertà e dell’assenza di una classe media, il mercato cinese effettivo è costituito da soli 200 milioni di persone, su una popolazione di 1 miliardo e 300 milioni.

Inoltre, in passato molte compagnie producevano in Cina, ma con l’aumento degli stipendi locali – e con il fatto che altri Paesi come India e Indonesia stanno sviluppando il proprio settore manifatturiero – i benefici del produrre in Cina, a livello di costi, stanno sparendo. Il Pcc sta ora cercando di costruire un’economia per la classe media e di spingere con forza prodotti cinesi – come i computer Lenovo e gli smartphone Xiaomi – all’interno della competizione globale; e si sta anche impegnando a fondo per ottenere materie prime e nel negoziare buoni accordi commerciali. Abbandonare la dipendenza dai prodotti e dalla tecnologia occidentali è infatti una grande priorità del Partito, in questo momento.

Inoltre il Pcc sta anche cacciando diverse società: la strategia, secondo la fonte, è di mandar via le compagnie straniere dalla Cina, quando i loro prodotti entrano in competizione con quelli cinesi nei mercati globali o del terzo mondo. Le compagnie che rimangono in Cina sono invece quelle da cui il Pcc pensa di poter ‘imparare’ qualcosa.
Il nuovo sistema cinese di ‘acquisizione’ di informazioni dall’estero, secondo la fonte, è quindi spiegato semplicemente dal fatto che «siccome cacciano via la gente, hanno bisogno di un modo per compensare la perdita in termini di innovazione».

Articolo in inglese: China’s New Industrial War

Traduzione di Vincenzo Cassano

 
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