False notizie e rischi di falsa democrazia

False notizie, bufale, Fake news. Indipendentemente da come le si voglia chiamare, ormai sono ovunque e a volte influenzano persino la politica e l’economia. Non è quindi sorprendente che ci sia chi vuole arginarle e bandirle.

PARMALAT E IL LATTE CINESE

Un recente caso di bufala di un certo impatto è quella secondo cui la Parmalat avrebbe iniziato a rifornirsi di latte cinese, mentre in realtà l’azienda emiliana aveva semplicemente terminato il contratto con il suo precedente fornitore di latte, genovese, senza che ai più fosse noto quale sarebbe stato il nuovo fornitore; come spesso accade in rete, l’ipotesi peggiore – quella che il latte venisse dalla Cina (che tra l’altro con in latte ha ancora più problemi che con altri alimenti) – si è subito diffusa (come notizia certa) attraverso un messaggio sulla piattaforma di messaggistica WhatsApp. I conseguenti danni di immagine (e quindi di fatturato), hanno costretto la Parmalat a smentire più volte sul social network Facebook, rispondendo a decine e centinaia di commenti: la Cina – spiega Parmalat – non produce abbastanza latte per esportarlo in grande quantità in Italia, e inoltre la forte deperibilità del prodotto renderebbe insensato l’approvvigionamento da un Paese così lontano. L’azienda ci tiene a chiarire che il suo latte è e continuerà a essere italiano, o al limite europeo.

Altri casi storici riguardano la bufala degli «exit poll italiani ufficiali diffusi in Gran Bretagna negli ambienti della finanza», che avrebbero dato il Movimento 5 Stelle in testa durante le elezioni europee del 2014, ma che in realtà erano stati inventati dal creatore di bufale Ermes Maiolica e dai troll di Osservatore Politico. La notizia falsa è stata ripubblicata sul blog di Beppe Grillo stesso e sui siti del Movimento.

Altri casi (apparentemente) meno gravi, sono le continue finte morti dei personaggi famosi (fra i più bersagliati l’attore Paolo Villaggio), i problemi con la droga di Teo Mammuccari (ci erano cascati anche amici e familiari) o il coma etilico di Barbara D’Urso: tutto falso.

UNA CURA PEGGIORE DEL MALE?

Ma, sebbene l’intento di sconfiggere le fake news possa essere perfettamente comprensibile, tra la teoria e l’applicazione pratica c’è sempre grande distanza. Per esempio a livello di interpretazione: qual è una falsa notizia e quale no, e chi lo decide? Ci sono infatti teorie scientifiche o storiche comunemente accettate, ma che non riscuotono consenso unanime nemmeno fra gli scienziati (anzi, spesso sono contestate all’interno della comunità scientifica stessa). Se un articolo le mettesse in dubbio sarebbe considerato una bufala? Negli ultimi anni si sono diffusi vari siti anti-bufale, che – appunto – spesso non raccolgono solo bufale vere e proprie (fatti palesemente falsi) ma anche articoli su argomenti controversi da loro ritenuti non sufficientemente solidi, anche in presenza di un corretto uso delle fonti.

Un altro problema è l’eventuale messa in atto automatica di una legislazione anti-bufala: qualsiasi algoritmo, proprio in virtù della sua automaticità, porterebbe senza dubbio a colpire notizie che bufale non sono, ma che solo vi assomigliano.
Di recente, infatti, Google ha ulteriormente modificato il suo algoritmo proprio per contrastare le fake news, e una tra le caratteristiche che penalizzerebbero un articolo sarebbe la «creazione di un falso senso di dubbio su fatti comunemente accettati». Questo cambiamento potrebbe, per esempio, portare a punire qualsiasi tesi etichettata come ‘complottistica’ (tesi che spesso – ma non sempre – sono bufale, e che non possono certo essere false solo in virtù dell’etichetta applicata), o a colpire un giornalista che dia una qualunque interpretazione di un fatto non del tutto conformata alle versioni ufficiali (che, come la Storia ha spesso dimostrato, non sono sempre o del tutto vere, se non altro perché, come recita un vecchio adagio, a scrivere la Storia è sempre il vincitore).

Questo è un pericolo comune: se si bombardano a tappeto le bufale, si rischiano vittime innocenti. Se non altro perché, perlomeno nella democrazia occidentale, il lavoro del ‘cane da guardia del potere’ (come viene definito, nel mondo anglosassone, il giornalista) è quello di confrontare tesi opposte, di osservare i fatti da ogni possibile angolazione, di indagare ogni ipotesi realisticamente plausibile, di dare voce a ogni versione fondata. E infine di riportare tutto, nella maniera meno soggettiva possibile, al lettore: il ‘giudice ultimo’ del processo informativo di ogni società democratica.

L’INTERVENTO DELLA POLITICA

E se in Italia i tentativi legislativi di regolare internet sono sempre stati malvisti da gran parte degli utenti di internet e da una cospicua fetta dei parlamentari, in Germania (nazione in questo senso all’avanguardia) la situazione è completamente differente: un disegno di legge contro le fake news e l’incitamento all’odio su internet è stato già approntato dal Governo di Angela Merkel e presto verrà votato in Parlamento, dove si prevede l’approvazione.

Alla base del provvedimento tedesco, vi è naturalmente anche il timore che le bufale possano essere usate a scopo politico (si avvicinano le elezioni), oltre alla spiccata sensibilità del popolo tedesco verso tutto quanto riguarda discriminazioni, incitamento all’odio eccetera, dovuta al mea culpa collettivo successivo al crollo del nazismo e alla sconfitta nella Seconda Guerra mondiale.
Ma non si può non notare come questo disegno di legge, nella sua forma attuale, sia particolarmente duro: si parla di multe fino alla titanica somma di 50 milioni di euro per i social media che, su intimazione da parte delle autorità, non rimuovano i contenuti incriminati entro un determinato periodo di tempo (ancora non specificato nel disegno di legge). I provider di questi servizi dovranno anche eliminare tutte le condivisioni di quello stesso post e assicurarsi che quest’ultimo non ‘risorga dalle sue stesse ceneri’.

Inoltre, l’applicazione concreta di una simile legge non è affatto semplice, ed è ragionevole supporre che potrebbe facilmente degenerare in una vera e propria censura mirata: se si considera, a titolo di esempio, la bufala degli exit poll che affermava, «Ecco gli Exit Poll italiani ufficiali diffusi in Gran Bretagna negli ambienti della finanza (e facilmente reperibili in rete), ma ancora vietati in Italia», in un caso del genere il Facebook della situazione potrebbe/dovrebbe censurare l’intera frase citata fra caporali. E, ovviamente, gli utenti potrebbero però ripubblicarla, cambiando alcune parole o rigirando la frase, portando a una serie infinita di reazioni a catena facilmente immaginabili.

Un’altra preoccupazione – niente affatto secondaria anche se per ora circoscritta al solo territorio tedesco – è che per il timore di multe salatissime (e insostenibili anche per giganti come Facebook e Google), i social media inizino a censurare attivamente e preventivamente i post a rischio, cosa che potrebbe portare anche a gravi ripercussioni sulla libertà di espressione individuale. Ancora una volta, il confine tra bufala e tesi alternativa o innovativa, e tra incitamento all’odio e legittima opinione controcorrente o politicamente scorretta, può essere molto labile.

Si sa: il libero arbitrio comporta anche il Male. E questo è un limite fisiologico della natura umana. Ma che democrazia è se, di fatto, non si possono più sostenere e argomentare le proprie opinioni?

 

Quelle espresse in questo articolo sono le opinioni degli autori e non riflettono necessariamente il punto di vista di Epoch Times.

 

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