La fuga di Li Ka-shing è l’ennesimo segno della crisi economica cinese

Dopo che il miliardario di Hong Kong Li Ka-shing, l’uomo più ricco d’Asia, ha recentemente trasferito i suoi investimenti fuori dalla Cina, i media statali lo hanno accusato di immoralità e ingratitudine: è stato attaccato per essere fuggito proprio nel momento in cui l’economia stava rallentando, e dopo aver guadagnato – durante il boom – enormi profitti dalla crescita cinese.
He Qinglian, nota economista, esplora le tensioni tra il potere e il capitale nella Cina di oggi.

In Cina, la ‘fuga’ di Li Ka-shing ha scatenato accese discussioni. Polemiche che possono essere intese come una sorta di guerra tra potere e capitale, e che rivelano il triplice ‘dilemma’ connesso agli investimenti nella Cina di questi ultimi tempi.

PRIMO DILEMMA – GLI INVESTIMENTI A HONG KONG SONO SEMPRE STATI CONSIDERATI COME UN CAPITALE ‘INTERNO’ A NOME STRANIERO

Dal momento in cui Deng Xiaoping ha dato avvio alla riforma e alla politica di apertura fino agli anni 90, gli investimenti a Hong Kong sono stati la componente più importante tra tutti gli investimenti stranieri, seguiti da quelli a Taiwan. La posizione di Hong Kong e il suo ruolo economico speciale, sono stati parte delle considerazioni politiche che hanno spinto il Partito Comunista Cinese (Pcc) a trattare Hong Kong come una piazza di investimento ‘straniero’.

Prima di allora, ai tempi in cui il Pcc era alle prese col blocco totale da parte dell’Occidente, Hong Kong era il ‘canale internazionale’ della Cina: il canale del capitale straniero e della tecnologia, così come la sua base per il commercio di importazione ed esportazione.

La Cina ha iniziato la riforma e l’apertura nel 1979. Gli uomini d’affari di Hong Kong non sono stati solamente il corpo principale di investimento, ma anche i pionieri e i collegamenti per favorire l’apertura della Cina. A quel tempo, Hong Kong ha rappresentato il 70 per cento degli investimenti esteri, seguita da Taiwan e dal Giappone.

Dopo che, nel 2001, la Cina ha aderito all’Organizzazione mondiale del commercio (Omc), Hong Kong ha gradualmente perso il suo status di luogo di ‘commercio di transito’ della Cina. La sua attività finanziaria estera si è lentamente indebolita e la città è diventata una base dove i funzionari del Partito spostano il loro capitale per un ulteriore impiego all’estero: il loro ‘giardino di riciclaggio del denaro’.

Tra il 1978 e il 2001, in seguito a considerazioni politiche, il Pcc ha classificato gli investimenti di Hong Kong come capitale ‘straniero’, dal momento che Hong Kong doveva ancora ritornare alla Cina o vi era appena ritornata. Trattare gli investimenti di Hong Kong come capitali stranieri nell’economia, è rimasto interesse del Pcc anche dopo il 2001. Per diversi ambienti, Hong Kong è infatti un importante canale per il riciclaggio di denaro; e anche adesso, i più importanti uomini d’affari di Hong Kong e gli investimenti cinesi nella città, sono strettamente legati al Partito Comunista.

SECONDO DILEMMA – I LIMITI AI FLUSSI: AL CAPITALE DI INVESTIMENTO È PERMESSO ENTRARE MA NON USCIRE

Il Pcc ha fortemente interferito nel declino di quest’anno del mercato azionario della Cina, e alla fine ha anche arrestato diverse persone con l’accusa di ‘prosciugare la Cina’. Questo è stato generalmente considerato come un’inopportuna ingerenza del governo nel mercato finanziario: un voler apporre dannose restrizioni alla libera circolazione dei capitali.

Con ‘flussi internazionali di capitale’, ci si riferisce ai trasferimenti di capitale – tra Paesi o regioni – inclusi gli investimenti, i prestiti, gli aiuti, il credito al consumo, il credito dei venditori, il commercio di valuta estera, le emissioni e la circolazione di titoli eccetera.
I flussi internazionali di capitali transfrontalieri, possono essere suddivisi in flussi in entrata e in uscita. Quando la Cina è entrata nell’Omc, i membri chiave dell’organizzazione, come gli Stati Uniti e diversi Paesi europei, hanno richiesto che la Cina aprisse il proprio mercato finanziario e consentisse al capitale estero di entrare.

Tra i Paesi membri dell’Omc, non c’è nessuno che accolga gli investimenti esteri e allo stesso tempo limiti i deflussi di capitale, per cui la regolazione del Pcc sui flussi di capitale ha stabilito un precedente. L’Omc non ha contromisure nei confronti di questa politica, e questo ha causato un ulteriore livello di preoccupazione per chi muove i capitali internazionali. I membri dell’Omc si sono quindi trovati davanti un Paese che pone delle restrizioni sul deflusso di capitali, e questa è la ragione per cui chiedono che la Cina emani regole attuative della perfetta mobilità dei capitali: non solo per permettere al capitale libero di entrare, quindi, ma anche per consentire al capitale di uscire.

IL ‘PECCATO ORIGINALE’ DI ESSERE RICCO, OVVERO IL TERZO DILEMMA: IN CINA, LA SICUREZZA PERSONALE DEI POSSESSORI DI CAPITALE DI INVESTIMENTO PRIVATO È A RISCHIO

In Cina, il capitale privato è sempre stato considerato un ‘peccato originale’: in tutto il Paese c’è l’idea che la maggior parte delle imprese private faccia affidamento sul potere politico per ottenere sostegno. Queste imprese, si ingrandiscono e si rafforzano conducendo affari nella ‘zona grigia’ creata attraverso le connessioni con i funzionari pubblici: la loro ricchezza non è considerata pulita.

Il governo presuppone che i ‘re’ del settore privato facciano uso di particolari ‘aperture’ che concede loro, come l’evasione fiscale e il falso in bilancio. Queste particolari aperture sono numerose e, considerando che normalmente il governo non ha problemi di denaro, quando le aziende private sono in buoni rapporti con i funzionari, non costituiscono nemmeno un problema.
Ma se il governo è a corto di denaro, o quei funzionari su cui le aziende private fanno affidamento sono in carcere per corruzione (oppure vanno in pensione), i capitalisti non sono più al sicuro.

Nel 2014, sono state pubblicate le ‘Linee guida per approfondire la riforma delle aziende di Stato’, nel tentativo di mobilitare il capitale netto privato, e molti imprenditori privati, nel timore che la mano del Pcc stia per raggiungerli, hanno iniziato a lasciare il Paese.

Questi imprenditori sono esposti in un gran numero di investimenti esteri, e questo ha causato in Cina negli ultimi mesi una forte riduzione delle riserve valutarie: Pechino ha avvertito dolorosamente la contrazione delle proprie riserve di valuta estera – circa seicento miliardi di dollari [528 miliardi di euro circa, ndt] in uscita, secondo un articolo del 28 settembre dell’Economist – e ha quindi aumentato il controllo sugli scambi in valuta estera. Decine di broker sono stati arrestati con l’accusa di ‘prosciugare la Cina’: il rapporto tra denaro e potere ha raggiunto un livello di tensione straordinario.

I TRE DILEMMI

Li Ka-shing si ritrova ad affrontare tutti e tre i dilemmi. Ci si chiede come mai Li Ka-shing sia stato messo all’indice come un fuggiasco dell’investimento. La risposta è nella natura del suo capitale di investimento.

Di tutti gli uomini d’affari di Hong Kong, Li Ka-shing è quello di maggior successo e con i legami più stretti con Pechino. Il magnate ha incontrato i leader del Partito in numerose occasioni (Deng Xiaoping per due volte: nel 1978 e nel 1990). Questo significa che ha avuto mano libera in Cina e che i suoi privilegi hanno superato quelli di qualsiasi altro ‘principino’ (il figlio o la figlia di un importante leader del Partito).

L’articolo che ha attaccato Li per aver lasciato la Cina recitava: «Se si considera la condotta affaristica di Li in Cina negli ultimi vent’anni, non ci si trova di fronte a semplici affari […] La ricchezza immobiliare non proviene interamente dall’economia di mercato. Potrebbe non essere in grado di andarsene come vorrebbe».
Il capitale di Li Ka-shing era in effetti un capitale ‘interno’ con un ‘nome straniero’, ottenuto grazie al Partito Comunista con politiche particolari e privilegi speciali. Pertanto il denaro di Li dovrebbe «affondare con il regime». E invece, con l’arrivo improvviso delle difficoltà economiche in Cina, Li si è preso i soldi e se n’è andato. Cosa che ha notevolmente contrariato il regime.

Ma quello che i media cinesi non osano dire, è che il disinvestimento di Li Ka-shing è un segnale dell’inizio del crollo. Li Ka-shing, non è infatti l’unico investitore di Hong Kong a lasciare la Cina: il 65 per cento di tutti gli investimenti ‘stranieri’ è costituito dal capitale cinese a Hong Kong, e questo capitale di investimento è aumentato in modo simile a quello di Li Ka-shing: con l’aiuto di chi è al potere. E la fuga di Li Ka-shing, ha innescato una reazione a catena che dimostra un rapporto sempre più teso tra il capitale di investimento e il potere politico: è un segnale della fine dei tempi d’oro dell’economia cinese.

 

Traduzione abbreviata dell’articolo di He Qinglian pubblicato sulla versione cinese di ‘Voice of America’

He Qinglian è un autrice ed economista cinese di primo piano. Attualmente vive negli Stati Uniti, ha scritto ‘China pitfalls’, che tratta la corruzione nella riforma economica cinese degli anni 90, e ‘The fog of censorship: Media control in China‘, che affronta il tema della manipolazione e del controllo della stampa.Scrive regolarmente su questioni contemporanee sociali ed economiche della Cina.

Articolo in inglese: www.theepochtimes.com/n3/1875809-flight-of-li-ka-shing-signals-the-beginning-of-chinas-economic-meltdown/

 
Articoli correlati