La felicità è un’illusione, meglio perseguire la contentezza

Sidney Bloch è Professore Emerito di Psichiatria presso l’Università di Melbourne

Voglio condividere con voi un punto di vista personale sulla differenza tra essere felici e sentirsi contenti. Inizierò con un caso clinico.

Si sono incontrati a una festa; ed è stato amore a prima vista proprio come si legge nei romanzi. Dopo un emozionante corteggiamento si sono sposati, e appena hanno condiviso il desiderio di allargare la loro famiglia, Jennifer ha annunciato la lieta notizia della sua gravidanza.

Erano al settimo cielo: dal loro primo incontro avevano condiviso solo momenti piacevoli. Tutti quelli che li conoscevano erano daccordo: la loro vita di coppia era piena di felicità.

Purtroppo quel momento magico doveva finire. La prima battuta d’arresto è arrivata solo pochi giorni dopo la nascita di Annie: la neonata dormiva poco di notte e soffriva di coliche persistenti; Jennifer, come neomamma, aveva il morale a terra, e un crescente senso di colpa e di malinconia si era impossessato di lei fino portarla al ricovero in un reparto psichiatrico (era la prima volta che aveva a che fare con la psichiatria); la paura che potesse nuocere ad Annie o a se stessa si era diffusa tra la famiglia e la cerchia di amici.
L’epilogo di questa storia è scioccante: nonostante la più scrupolosa assistenza medica e le cure infermieristiche, Jennifer si suicida gettandosi da un balcone del secondo piano. La sua famiglia e gli amici cadono in un abisso di dolore, e anche il personale medico che si era preso cura di lei, si sente abbandonato.

UN OBBIETTIVO IRREALIZZABILE

Lavorando per oltre quarant’anni come psichiatra e avendo avuto modo di conoscere decine di uomini, donne e bambini di diversa estrazione e con storie di vita uniche, sono stato testimone di molti racconti tristi, anche se il suicidio, grazie a Dio, è stato un evento raro.

Queste esperienze, combinate con un’inesauribile passione per quello che spinge le persone ad andare avanti nella vita, mi hanno condotto con gran malincuore a concludere che, anche se possiamo assaporarla episodicamente, la felicità sarà invariabilmente sconvolta da indesiderati sentimenti negativi. Eppure, la gran parte del genere umano continuerà a nutrire l’aspettativa di una vita felice, ignorando come questo pio desiderio sia un modo inconscio per reagire alla paura del dolore psichico.

Invece di affrontare e demoralizzare chi ha cercato il mio aiuto, in modo gentile ma onesto ho risposto al desiderio malinconico “tutto quello che voglio è solo essere felice” mettendo in evidenza un intrinseco sentimento umano. Ossia, aggrapparsi all’illusione di avere la capacità di evitare la sofferenza e di godere di uno stato continuo di piacere, equivale ad auto-ingannarsi.

Ho offerto loro la speranza – ma senza garanzie – di poter condurre una vita più appagante rispetto al passato, partecipando a un impegnativo, e a volte anche doloroso, processo di auto-esplorazione il cui scopo è migliorare la comprensione di sé e l’accettazione del realtà collegata allo stato emotivo che io chiamo ‘contentezza’.

Si potrebbe ribattere: “Tu tratti le persone che sono infelici, pessimiste e autocritiche, di sicuro devi essere irrimediabilmente di parte”. Un’obiezione comprensibile, ma vorrei far notare che tutti noi, non solo chi è in cura, bramiamo la felicità e veniamo ripetutamente frustrati dalla sua inafferrabilità.

Come ha sottolineato il padre della psicoanalisi Sigmund Freud, nel saggio del 1930 Il disagio della civiltà, siamo molto più vulnerabili all’infelicità piuttosto che al suo opposto, ecco perché siamo costantemente minacciati da tre forze: la fragilità del nostro sé fisico, ‘condannato’ all’invecchiamento e alle malattie; il mondo esterno, con il suo potenziale distruttivo (ad esempio inondazioni, incendi, tempeste e terremoti); le nostre relazioni con gli altri imprevedibilmente complicate (le quali Freud giudicava come la più dolorosa fonte di infelicità).

Quindi, sono semplicemente un misantropo? Spero di no, ma sono propenso a concordare con Elbert Hubbard, l’artista e filosofo americano, che ha detto, «La vita è solo una serie di dannazioni una dopo l’altra». Infatti, basta solo pensare ai 50 milioni di sfollati che sono senza probabilità di trovare a breve un rifugio sicuro stabile, oppure ai 2,2 miliardi di persone – tra cui milioni di bambini – che vivono con meno di due dollari al giorno, per apprezzare la validità di tale osservazione.

UN’ALTERNATIVA MIGLIORE

Visti gli enormi ostacoli nel rincorrere la felicità o di promuovere la sua sostenibilità, se avremo abbastanza fortuna da raggiungerla, quali scelte abbiamo noi esseri umani? Non ho incontrato nessuna risposta valida a questa domanda, nemmeno dai fermi fiduciosi sostenitori della scuola contemporanea di psicologia positiva. Quindi sostengo quanto segue: dal momento che abbiamo i mezzi per distinguere tra felicità e soddisfazione, possiamo esaminare come si differenziano e, così facendo, individuare un’alternativa al perseguimento della futile felicità.

Happiness [‘felicità’ in inglese, ndt], deriva dalla parola norrena ‘hap’, che significa fortuna o opportunità; l’espressione ‘happy-go-lucky’ [letteralmente: ‘felicità-andare-fortuna = spensieratezza’, ndr] è rappresentativa di una specifica associazione. Molte lingue indoeuropee confondono i concetti di felicità e fortuna. ‘Glück’ in tedesco, per esempio, può essere tradotto sia come ‘felicità’ che ‘opportunità’, mentre ‘eftihia’, la parola greca per felicità deriva da ef, buono, e da tixi, fortuna o opportunità.

Così, una madre può avere la fortuna di sentirsi in estasi quando risponde al giocare divertito del suo bambino, solo per vederlo evaporare un paio di anni dopo, rimpiazzato dai primi sintomi dell’autismo. Nella storia con cui abbiamo iniziato questo articolo, Jennifer avrebbe potuto tenere duro fino a che il suo bambino avesse iniziato a dormire tranquillamente senza le dolorose coliche delle prime settimane di vita.

Contentezza deriva dal latino contentus e di solito è tradotta come ‘soddisfazione’. Qui non ci sono molti significati a confonderci. A mio avviso, sentirsi contenti si riferisce a una radicata e durevole accettazione di se stessi e del proprio valore, insieme a un senso di auto-realizzazione, di significato e determinazione.

[…]

Ho avuto il privilegio di conoscere uomini e donne che hanno sofferto gravemente da bambini nei ghetti e nei campi di concentramento nell’Europa nazista, ma sono emersi dal loro incubo, e hanno affrontato la sfida emotiva e spirituale della ricerca di punti di forza dentro di loro. Con il passare del tempo, molti sono riusciti a raggiungere un senso di profonda soddisfazione.

Quello che questi sopravvissuti hanno chiaramente dimostrato, è che accettare e rispettare se stessi, insieme al determinare cosa sia significativo per se stessi, è la base (anche se mai definitiva) di una maggiore opportunità di realizzazione di quanto lo sia una ricerca incessante e, in ultima analisi, inutile di felicità.
In conclusione, la soddisfazione può potenzialmente servire da solida base per poter vivere ed apprezzare episodi di gioia e piacere.


Le opinioni espresse in questo articolo rappresentano le opinioni dell’autore e non necessariamente riflettono il punto di vista di Epoch Times.
 


Articolo originariamente pubblicato su The Conversation 
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