Crisi migratoria in Europa: quali sono i rimedi?

Profughi, rifugiati, stranieri, vengono chiamati in tanti modi e ognuno ha una storia da raccontare. Ma indipendentemente dalle loro condizioni, se ci si fermasse a guardarli negli occhi si vedrebbero semplici padri di famiglia, madri, giovani e vecchi che fuggono da un Paese. E mentre l’Europa si dibatte per aiutarli, risultano evidenti alcune mancanze.

Giovedì 3 settembre un treno carico di migranti è partito da Budapest per dirigersi a Sopron, vicino alla frontiera austriaca. Durante il viaggio il treno si è fermato a Bicske, città che ospita un campo profughi. Lì è nato uno scontro tra la polizia e i migranti; urlando «No camp» i viaggiatori in cerca di speranza si sono rifiutati di scendere, facendo capire quanto forte fosse la loro volontà di raggiungere il Paese della speranza.

Per cercare comprendere meglio una situazione che sembra essere sempre più confusionaria, Epoch Times ha intervistato Gabriella Guido, coordinatrice di LasciateCIEntrare, un’organizzazione non governativa che lotta per la revisione delle politiche sull’immigrazione.

Cosa ne pensa della dichiarazione fatta dal generale americano Dempsey: «La crisi migratoria in Europa durerà almeno 20 anni»?

«Che l’Europa sarebbe stata una terra promessa per molti, lo si dice da anni. Purtroppo c’è stata una volontà di non affrontare la questione, un’insufficienza strategica e politica gravissima, perché i segnali c’erano. Alcune voci autorevoli già lo dicevano, ma sono rimaste troppo, troppo inascoltate. Poi adesso la risposta è data dai populismi nazionali, e quello è un problema, perché la politica non riuscirà a occuparsi di tutto. Ormai è evidente: a livello umano quello che sta avvenendo è incontrollabile, sebbene per certi versi fosse facilmente prevedibile – è un qualcosa che sta scioccando tutti perché forse non volevamo rendercene conto».

Come mai esistono dei picchi relativi ai flussi migratori? Pensa che ci siano altre cause sottostanti?

«Questa crisi migratoria è stato un fenomeno volutamente sottovalutato, e penso che porterà a una grossa instabilità geopolitica. Si tratta di un discorso di controllo politico ed economico, perché alcuni conflitti potevano anche essere immaginati. L’intelligence esiste e può agire a tutti i livelli e in tutti gli Stati. Se è stato permesso che delle persone andassero in alcune aree geografiche non dico che fosse per un disegno preciso, ma evidentemente è successo perché alcune aree erano meno interessanti rispetto ad altre».

E riguardo a quello che sta avvenendo a Budapest, con la polizia che segna i migranti con dei numeri sul braccio? Può avere lo stesso significato di un’impronta digitale?

«Le impronte digitali sono un qualcosa che consente di essere identificato in un database che è transnazionale. Mentre prendere il numero sul braccio può essere visto come il tentativo di gestire il transito tra una frontiera e l’altra. È stato un metodo di gestione per dire chi è stato registrato e chi no. Pur essendo orribile, è stato chiaramente un sistema logistico e organizzativo. Poi chiaramente per noi è un simbolo, perché comunque noi sappiamo cosa sta avvenendo. Un tempo c’erano le guerre internazionali, ora sono le masse di uomini e di donne che stanno modificando l’assetto geopolitico, di fatto lo stanno modificando».

Questo può ricordare alcuni fantasmi del passato?

«Assolutamente sì, penso che si stia riproponendo un vecchio meccanismo. Ma a mio avviso non è tanto il pennarello e il numero sul braccio, è la responsabilità politica. Noi sappiamo delle morti nel Mediterraneo, abbiamo ormai una strage al mese; ora ciò che è importante è consentire agli esseri umani di poter cambiare Paese, cercare un Paese più sicuro con flussi governati. Questo perché ora, chiaramente, gli uomini e le donne che scappano si mettono in mano a reti di trafficanti che sono molto organizzati ed è già stato dimostrato».

Quindi adesso cosa sta accadendo in Europa?

«A parer mio l’Europa in questo momento è nel caos perché deve decidere cosa fare con i trattati di Schengen e di Dublino: siamo arrivati al nocciolo del problema. Parliamoci chiaro: i campi profughi al limite si attrezzano, si possono governare in una situazione di emergenza. Il problema è trovare una situazione politica. Queste cosiddette quote che si decidono, sono troppo basse rispetto alla realtà dei fatti. Perché se l’Austria, la Germania o la Svezia dicono: “Noi ne accoglieremo tot, perché siamo in grado di gestirne tot”, che cosa succederà agli altri che rimarranno fuori? La Germania non può accettare soltanto i siriani, è una cosa gravissima. Che l’Europa non abbia capito che la Germania abbia giocato d’anticipo, senza consultare nessuno, anche questo è un campanello dall’allarme di qualcosa che sta implodendo, e qualcosa che non può essere gestito con queste risposte».

Quali possono essere i rimedi?

«Credo che oltre a un processo culturale, ci debba essere anche un grosso investimento economico. Ma è inutile che dall’altra parte dell’oceano vengano inviate truppe o navi galleggianti che possano diventare dei centri d’accoglienza. Il punto è investire, con un piano strutturale. Se ci dovesse essere un intervento grosso, si potrebbero creare delle zone cuscinetto; magari non in Libia, ma per esempio in Algeria. In questo modo si potrebbe tamponare una questione urgente, ma ci vuole comunque tempo per farlo.

Qui non abbiamo di fronte uno Stato, ma uomini e donne che hanno il diritto di fuggire, e trattati internazionali che ti impongono il dovere dell’accoglienza. Quindi o stracciamo le convenzioni internazionali ed erigiamo dei muri, per cui faremo la selezione degli ospiti con i migranti che entrano nei nostri Paesi. Oppure, se dobbiamo rispettare quei trattati internazionali, dobbiamo aprire le porte. Ma con una rete di cooperazione fra gli Stati. Il conflitto qui è con noi stessi, è interiore». 

 

 
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