La fine delle vecchie centrali nucleari è un problema

Gli Stati Uniti sono il più grande produttore al mondo di energia nucleare, ma la loro rete composta di quasi 100 reattori inizia a mostrare gravi segni d’invecchiamento.

Il 2 novembre, il proprietario di una centrale nucleare di New York ha detto che chiuderà gli impianti; è stato l’ultimo di una serie di annunci di chiusura provenienti da Massachusetts, California, Florida e Wisconsin. Negli Stati Uniti, torna alla ribalta l’importante questione energetica: questi ritiri riflettono un insieme di sfide economiche per le centrali nucleari del Paese, e hanno delle importanti implicazioni per quanto riguarda il cambiamento climatico, i costi energetici e l’affidabilità della rete elettrica.

Negli Stati Uniti il nucleare fornisce circa il 20 per cento dell’energia elettrica, la media per età delle centrali si aggira attorno ai 34 anni e, nella migliore delle ipotesi, le prospettive per il futuro di molti di questi impianti sono incerte. Mentre cinque nuovi reattori sono in fase di costruzione, la Word Nuclear Association ha stimato che circa un decimo degli impianti della nazione sono a rischio di chiusura. La spiegazione di queste chiusure e della quantità limitata di nuove costruzioni è semplice: il costo.

L’abbondante ed economico gas naturale ha fatto coppia con la rapida espansione dell’energia eolica, limitando così gli aumenti dei prezzi dell’energia elettrica, rendendo più difficile per alcuni operatori nucleari continuare a operare, o effettuare delle costose riparazioni. Entro il 2020 la US Energy Information Administration ha stimato che la spesa necessaria per portare avanti una nuova linea nucleare costerà oltre il 25 per cento in più rispetto al gas naturale o al vento.

Ma per gli Stati Uniti il nucleare è di gran lunga la più importante fonte energetica elettrica che non emetta Co2; mentre le energie rinnovabili come l’eolica e la solare – sebbene stiano crescendo rapidamente – nel 2014 hanno rispettivamente rappresentato soltanto il 4 e lo 0,4 per cento della produzione di elettricità per tutto il Paese. Insomma, con il tramonto del nucleare, che cosa ne accadrebbe alle emissioni di Co2?

IMMAGINE A REGIONI

Se il nucleare fosse in qualche modo sostituito dall’energie eolica e solare, le emissioni resterebbero stabili, nella migliore delle ipotesi. Il sistema elettrico statunitense produce circa 500 tonnellate di Co2 per ogni gigawatt all’ora di energia prodotta, e se oggi tutta la potenza nucleare venisse sostituita dal gas naturale, le emissioni di Co2 del nuovo settore energetico crescerebbero del 15 per cento.

Prendiamo come esempio il Giappone che, dopo il tracollo di Fukushima Daiichi nel 2011, ha ordinato la chiusura di tutte le unità nucleari. L’energia nucleare è stata sostituita dal carbone, dal petrolio e dalla generazione a gas (il Paese ha anche adottato delle misure di conservazione di energia). La maggior parte dei reattori sono ancora spenti, e le emissioni di Co2 nel 2014 sono state superiori di circa il 20 per cento rispetto a quanto non fossero nel 2010, l’anno prima del terremoto.

Ma la questione per gli Stati Uniti è ancora più complicata: l’effetto delle emissioni di Co2 a seguito della chiusura di una centrale nucleare varia sostanzialmente in base a quale parte del Paese riguardi. Anche perché alcune regioni come la California e i nove stati del nord-est del Paese producono e consumano energia elettrica nell’ambito dei programmi cap-and-trade (un disegno di legge che prevedrebbe  un tetto massimo di emissioni inquinanti, ma che è morto in Senato nel 2009). Questi programmi limitano la quantità di Co2 che può essere emessa dalle centrali energetiche ogni anno (il programma della California copre anche altre fonti di energia come i carburanti per il trasporto), e impostano un prezzo fisso per ogni ‘dose’ di Co2 prodotta.

Quindi, se una centrale nucleare della California o del Massachusetts viene chiusa, il mercato trova un modo per stare al di sotto del tetto di emissioni andando a ridurre la domanda, aumentando l’efficienza e aggiungendo nuove fonti senza emissioni come il carbonio, l’energia eolica e solare. Queste misure richiedono comunque nuovi investimenti, e aumentano il prezzo dell’energia elettrica.

Tuttavia, quando una centrale nucleare viene chiusa nel Wisconsin o in Florida, dove non ci sono limiti di emissione, non vi è l’obbligo per cui i produttori di energia debbano trovare un modo per contenere le proprie emissioni. In questo modo l’energia elettrica verrà sostituita dalla combinazione di fonti energetiche più conveniente per quella regione, e dato che l’opzione più economica è il gas naturale, le emissioni di Co2 probabilmente aumenteranno.

EOLICO E SOLARE DA SALVARE?

Alcuni sosterranno che l’energia nucleare possa essere sostituita facilmente da eolico e solare. In effetti, queste fonti di energia sono in rapida crescita negli Stati Uniti, e in alcuni casi sono competitive con i combustibili, come il gas naturale per esempio. Ma eolico e solare non forniscono un tipo di energia costante: non danno una quantità base di fornitura affidabile di energia al pari del carbone o del gas.

L’energia eolica e solare producono quando soffia il vento e quando splende il sole, hanno quindi bisogno di essere sostenute da una base solida di energia come il gas naturale. Le politiche in alcune parti del Paese hanno introdotto ulteriori incentivi per la fornitura di energia affidabile, tuttavia questi incentivi non sono stati sufficienti a scongiurare il ritiro delle centrali nucleari in fase d’invecchiamento.

Il governo federale americano ha sostenuto per decenni il nucleare tramite la legge Price-Anderson che di fatto limita la responsabilità del gestore nel caso di incidenti, e ha sostenuto anche le politiche più recenti che prevedono un credito d’imposta per le nuove centrali nucleari, delle garanzie di prestito per le nuove costruzioni e altro ancora.

L’amministrazione Obama ha finalizzato di recente il piano Clean Power (potere pulito, ndt), che richiede dei programmi di utilità per ridurre le emissioni complessive del Paese attraverso l’efficienza o l’utilizzo di fonti di energia meno inquinanti. Tuttavia al tempo stesso non crea degli incentivi per mantenere la produzione dei reattori più vecchi.
Con l’assenza di un cambiamento sostanziale nella politica statunitense, la tecnologia nucleare, i prezzi dell’energia elettrica e gli impianti delle centrali nucleari continueranno ad affrontare le stesse considerevoli sfide.

Nel frattempo, l’ubicazione degli impianti che ‘vanno in pensione’ conta molto per le emissioni di Co2. Nelle regioni con cap-and-trade i ritiri degli impianti nucleari innalzeranno i prezzi dell’energia e avranno uno scarso effetto a breve termine in tema di emissioni; per le regioni senza cap-and-trade, invece, la chiusura degli impianti vicini comporterà probabilmente un aumento delle emissioni.

Guardando al futuro, un approccio migliore che limiti le emissioni di Co2 potrebbe riunire il Paese intero, piuttosto che lasciare che i piani cap-and-trade continuino a essere attuati in alcuni Paesi, e non in altri. Gli analisti sanno da anni che il prezzo del carbone a livello nazionale dev’essere il primo punto per una politica climatica economicamente sana.

Le lotte del nucleare renderanno difficile agli Stati Uniti il raggiungimento di obiettivi climatici a lungo termine, nonostante l’abbassamento dei costi dell’energia eolica e solare stiano fornendo una spinta. Tuttavia, senza regolamentare i prezzi del carbone a livello nazionale non vi è un chiaro percorso che vada verso la riduzione dei livelli di emissioni e che eviti così le peggiori conseguenze sul cambiamento climatico.

 

Daniel Raimi è docente di Politiche pubbliche e ricercatore specializzato dell’università del Michigan. Questo articolo è stato originariamente pubblicato su TheConversation.

Articolo in inglese: ‘As US Shutters Aging Nuclear Plants, Cutting Emissions Will Become More Costly

 
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