La battaglia dell’Ilva

Sono tanti i livelli su cui si combatte la ‘battaglia’ dell’Ilva: quello dell’interesse nazionale dell’Italia a livello geopolitico e quello dei lavoratori, della salute dei cittadini; poi c’è ArcelorMittal, che vuole acquisirla per diventare ancora più presente in Europa. E infine la Cina, che a livello mondiale nel campo dell’acciaio è in posizione di assoluto dominio.

In tutto questo, chi si è fin da subito accontentata di una ‘pace’ non troppo umiliante è appunto l’Italia, che ha rinunciato alla possibilità di mantenere in proprie mani l’industria più grande in Europa per produzione d’acciaio annua.
L’Ilva, gestita male e anche in modo irresponsabile (almeno così dice la magistratura), si è riempita di così tanti debiti che persino l’amorevole Stato italiano, che più volte aveva tentato di salvarla, ha dovuto implorare ‘l’invasione’ straniera.
Si potrebbe sostenere, in realtà, che la malagestione diventi anche più probabile, quando c’è di mezzo lo Stato, che ha gestito l’Ilva dagli anni ’20 fino a prima del 1995, e che ha continuato a vigilare su di essa dopo la privatizzazione in quanto industria di elevato interesse strategico nazionale: quando lo Stato protegge un’azienda, l’imprenditore si sente al sicuro  ed è quindi meno incentivato a innovare e a evitare rischi non necessari.
E oltre a questo, c’è anche la vicenda penale in cui sono stati implicati i Riva.

In ogni caso il governo italiano ha deciso, a seguito del commissariamento nel 2012, di cedere l’azienda. E l’unico acquirente adatto (le proposte non sono affatto arrivate a fiumi) si è rivelato Am Investco: una cordata formata dal colosso europeo Arcelor Mittal e dal gruppo Marcegaglia, quest’ultimo con una quota del solo 15 per cento. E per giunta, sulla stampa nazionale vocifera che la parte italiana di questo gruppo rischi di venir mandata via.

Arcelor Mittal ha sede in Lussemburgo ed è quotata a Parigi, Amsterdam, New York, Madrid, Bruxelles e Lussemburgo. Il suo amministratore delegato è Lakshmi Mittal, un miliardario indiano che vive a Londra.
Il gruppo produce 44 milioni di tonnellate d’acciaio all’anno in Europa, secondo il sito ufficiale, e intorno ai 100 milioni di tonnellate annue nel mondo. Ha un presenza in tutti i continenti ed è un colosso mondiale.
Nel suo periodo d’oro, l’Ilva produceva 12 milioni di tonnellate d’acciaio all’anno, quindi il 27% della produzione europea di Mittal e il 12 per cento della sua produzione mondiale. Annettendosi l’Ilva, Mittal può riportarla in vita e intascare questo importante bottino, o semplicemente accontentarsi di aver eliminato un concorrente. E chiuderla. Come teme il presidente della regione Puglia Michele Emiliano.

Il gruppo Mittal è un gigante dell’acciaio, ma impallidisce di fronte alla potenza del colosso comunista cinese, che col suo ‘capitalismo di Stato’ è di fatto un mega imprenditore che controlla ogni industria sul proprio territorio. Le acciaierie cinesi producono ogni anno circa 800 milioni di tonnellate d’acciaio: 8 volte la produzione mondiale di Arcelor Mittal.
Di conseguenza è anche plausibile che per l’Occidente o l’Europa risulti conveniente allearsi contro il colosso cinese, piuttosto che farsi la guerra tra singoli Paesi. A questo riguardo i dazi di Trump sembrano porre una minaccia ancora più efficace di qualsiasi fusione tra aziende, visto che colpiscono anche all’acciaio e hanno terrorizzato il regime cinese (ma non Mittal, che ha anche una presenza fisica in America, e che forse ne è anche contenta).

Al momento, in Italia, i sindacati, il governo e l’azienda lussemburghese sono sulla stessa lunghezza d’onda. Solo le autorità locali, che intendono rappresentare i cittadini in generale, mostrano gravi perplessità – non sull’accordo di cessione in sé ma sui dettagli – e tra le questioni chiave spicca quella ambientale.

Al momento c’è in effetti una pesante discrepanza tra le affermazioni che circolano sul web e tra i cittadini di Taranto – supportate anche da elementi derivanti dalla percezione quotidiana (nubi scure, odori nauseabondi) – e la letteratura scientifica, che per quanto riguarda l’inquinamento da acciaio risulta insufficiente.
Una perizia ha in passato accertato che nei quartieri di Borgo e Tamburi, nelle vicinanze dell’impianto di Taranto, la mortalità associabile direttamente alle emissioni dell’acciaieria è aumentata del 3,3%: visto con occhio cinico, un dato importante ma non catastrofico. Ma gli attivisti sostengono che andrebbero condotti studi più approfonditi, e che il fenomeno sia in realtà ben più grave.

 
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