Il tribunale inglese respinge il ricorso di Julian Assange

Il tribunale di Westminster ha respinto in data 13 febbraio il ricorso per l’annullamento del mandato di arresto nei confronti del fondatore di Wikileaks, Julian Assange, che vive rinchiuso nell’ambasciata ecuadoriana di Londra dal giungo del 2012.

La sentenza del tribunale non risolve la situazione di stallo legale e diplomatico che Assange vive da quasi sei anni. Infatti, se uscisse dalla palazzina dell’ambasciata dell’Equador rischierebbe di essere immediatamente arrestato dalla polizia. Le autorità britanniche avevano emesso il mandato di cattura a fronte della richiesta di estradizione del tribunale di Stoccolma, che accusava l’hacker australiano di aver commesso reati sessuali in territorio svedese. Ma sebbene in Svezia le accuse siano decadute a maggio del 2017, il tribunale di Westminster ha confermato che il mandato di arresto per ‘latitanza’ continua a essere valido.

Assange ha commentato con stupore la sentenza tramite Twitter: a suo avviso il giudice si è spinto oltre le argomentazioni presentate da ambe le parti, e ha commesso diversi errori fattuali. Assange ha anche detto di avere a disposizione tre mesi per impugnare la decisione del giudice, ma non ha specificato se intende avvalersi di questa facoltà.

Durante l’udienza del 13 febbraio i legali di Julian Assange hanno chiesto la revoca del mandato d’arresto, ma il giudice Emma Arbuthnot ha respinto tutte le argomentazioni della difesa e ha attaccato l’attivista australiano: «Ho l’impressione che lui [Assange] voglia imporre le sue condizioni al sistema giudiziario. […] Sembra che si consideri al di sopra della legge e che parli di giustizia solo quando gli conviene».

Dal canto suo Assange ha sempre sostenuto che le accuse di reati sessuali fossero prive di fondamento e che i suoi problemi legali siano da imputarsi al fatto che nel 2010 Wikileaks ha reso pubblici oltre 251 mila documenti diplomatici statunitensi, molti dei quali erano classificati come ‘confidenziali’ o ‘segreti’. L’attivista teme che consegnandosi alle autorità britanniche possa essere estradato negli Stati Uniti, dove la sottrazione e diffusione di documenti segretati costituisce un reato molto grave.

A questo proposito la giudice Arbuthnot ha dichiarato: «Dovrebbe essere il tribunale, con l’assistenza dei legali di Assange e dei consulenti esterni, a decidere se l’imputato debba o meno essere estradato». La giudice ha anche dichiarato di dover tenere in considerazione l’impatto del caso sulla fiducia dei cittadini verso il sistema giudiziario britannico, dal momento che l’attivista australiano è riuscito a sottrarsi per anni al regolare corso della giustizia.

Gli avvocati di Assange hanno anche sostenuto che essendo stato ‘recluso’ nell’ambasciata, il loro assistito avrebbe in qualche modo  già ‘scontato’ una pena sproporzionata per il solo reato di ‘latitanza’: «[Assange] Ha trascorso cinque anni e mezzo in condizioni che, sotto ogni punto di vista, sono analoghe a quelle della detenzione. Senza un adeguata assistenza sanitaria e senza poter vedere la luce del sole, la sua salute fisica e psicologica si è deteriorata e ora è in serio pericolo».

Ma il magistrato ha respinto queste argomentazioni sottolineando come le condizioni nell’ambasciata siano (ovviamente) ben diverse da quelle di una prigione: «Tanto per cominciare è sempre stato libero di lasciare l’ambasciata in qualsiasi momento. […] Inoltre può disporre a piacimento di computer e telefono, cosa che i detenuti non possono fare».

Insomma, la questione Assange rimane ancora del tutto aperta.

 
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